Spettacolo
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«Nel cinema non esistono “originali”, tutte le copie di un film sono uguali, e nonostante questo accade una magia: a ogni visione il film cambia, perché siamo cambiati noi».

(Alessandro Avataneo, regista cinematografico e teatrale, docente di cinema e storytelling alla Scuola Holden di Torino)

 

La crisi del Cinema è sotto gli occhi di tutti. Tuttavia, a parere di chi scrive (facente già parte della cosiddetta “vecchia generazione”) il Cinema riveste ancora un “fascino” particolare. Questo, forse, è un giudizio di parte in quanto appassionato della settima arte. 

 

E’ veramente così? Abbiamo girato il quesito ad Alessandro Avataneo, regista cinematografico e teatrale. «A tutt’oggi, il Cinema rappresenta l’esperienza narrativa più potente, completa e accessibile, anche se questo primato si esaurirà in pochi anni, forse venti o trenta, quando il cinema, probabilmente, verrà sostituito da una forma ibrida di film interattivo e videogame. Ciò consentirà allo spettatore di essere protagonista di una realtà alternativa, indistinguibile dalla nostra e personalizzabile secondo una serie di parametri e gusti individuali che consentiranno ai più “drogati” di narrazione tra noi di restare immersi nel mondo virtuale e interagire da lì con il mondo reale, e magari guadagnare palate di soldi passando la vita a “giocare” – cosa che peraltro già accade oggi, se pensiamo al fenomeno degli influencer digitali».

Il buio della sala attira ancora?

«Nel buio della sala cinematografica subiamo una mutazione temporanea: entriamo in una specie di letargo, di intorpidimento dei sensi, e viviamo un sogno che si connette con gli strati più profondi della nostra fantasia e del nostro inconscio, fino a incidere il nostro immaginario in maniera indelebile».

Ciò accade con i libri, ma nella lettura è più faticoso, perché il nostro cervello deve tradurre le parole in immagini, suoni e azioni, mentre nel cinema è tutto lì, proiettato sullo schermo e immaginato per noi.

«Certo. Questo non vuol dire che al cinema siamo spettatori passivi, anzi, il nostro cervello ha molte informazioni in più da assorbire e su cui lavorare, ma in una situazione – il più delle volte – di piacevole abbandono e non di sforzo intellettuale. Questo accade tramite un complesso meccanismo di segni, gesti e codici cinematografici che prendono il nome di “messinscena”. Possiamo tranquillamente dire che noi siamo, per associazione e per contrasto, non solo il risultato delle nostre esperienze reali, ma anche di quelle immaginarie, cioè quelle che derivano da tutti gli oggetti narrativi che abbiamo amato e che ci hanno influenzato».

Il cinema, dunque, è l’esperienza più completa perché racchiude in sé tutte le arti, precedenti e posteriori alla sua invenzione. Nel cinema contemporaneo cosa troviamo?

«Troviamo le stesse meccaniche della letteratura, del teatro, della serialità e del videogame. L’arte propria del cinema, il montaggio, da quando esiste il cinema ha influenzato tutte le altre arti. Anche la musica, la pittura e la fotografia hanno influenzato il cinema e successivamente ne sono state condizionate. Essendo una struttura complessa fondata sul movimento, il cinema è anche danza, architettura, scultura, e da quando esiste il cinema anche i libri sono diventati via via più “cinematografici”, cioè più immersivi e coinvolgenti per il pubblico di massa. Basta considerare il fatto che i grandi best seller di oggi, cioè i libri che vendono globalmente più di 100 milioni di copie, sono scritti con tecniche cinematografiche; sono cioè, salvo rare eccezioni, esperienze cinematografiche scritte su carta». 

Cosa ci può dire sull’esperienza narrativa cinematografica?

«Il cinema è l’esperienza narrativa più accessibile, perché richiede meno tempo di un libro per essere vissuta. C’è da dire, inoltre, che nel cinema non esistono “originali”, tutte le copie di un film sono uguali, e nonostante questo accade una magia: a ogni visione il film cambia, perché siamo cambiati noi. Se provate a rivedere un film più volte, ritroverete sempre voi stessi, ma non solo. Ci sarà sempre qualcosa in più o in meno. Perché il Cinema è una scultura del Tempo, come diceva Tarkovsky, ma si può aggiungere che non solo scolpisce il tempo dei film così come immaginati dai loro autori, ma anche il nostro».

Allora perché si registra una crisi galoppante nel Cinema?

«Nonostante tutti questi pregi, la crisi nel cinema come spettacolo collettivo è irreversibile e ha radici lontane. Contrariamente a ciò che si pensa, non è un fenomeno recente. Il Cinema come spettacolo di massa è in crisi da quando esiste la TV, cioè dalla fine degli anni ‘30. Negli anni ‘40 il 75% della gente andava al cinema una volta alla settimana, oggi siamo al 4%, e più della metà della popolazione va al cinema meno di una volta al mese. Questo passaggio da intrattenimento collettivo a intrattenimento individuale riflette l’affermarsi progressivo dell’individualismo di massa, che ha cancellato il concetto di società e di industria novecenteschi, cioè le due categorie da cui e per cui è nato il cinema».

Quindi un fattore economico e sociale?

«Non solo. C’è anche un fattore antropologico: in buona sostanza, i film non ci bastano più. Il concetto cardine che spiega non solo l’intrattenimento, ma la realtà di oggi, cioè come funzioniamo noi umani, è quello di “universo narrativo”. Molti di noi oggi preferiscono restare immersi dentro gli universi narrativi che amano il più a lungo possibile, o per coltivare una versione alternativa di sé stessi sui social network, o per vivere altre vite oltre all’unica che hanno».

Quali sono questi universi narrativi?

«Sono quelli basati sui nostri gusti, da Harry Potter a The Walking Dead al Trono di Spade a Westworld, e veniamo catalogati in base ai nostri gusti da algoritmi che decidono cosa si deve produrre a livello globale. Le imprese operanti nella distribuzione via internet di film, serie televisive e altri contenuti d’intrattenimento funzionano così. Vanno a catalogare l’umanità in circa duemila nicchie di consumatori e, sulla base della dimensione e dei comportamenti di questi gruppi, stabilire quali film e serie produrre e quanto investire per ciascuna di esse. Le serie stanno ai film come il racconto sta al romanzo. Il filosofo tedesco Walter Benjamin aveva analizzato, nel suo saggio sulla narrazione del 1936, come la narrazione intesa nella sua forma più antica, cioè quella di racconto orale, fosse stata soppiantata dal romanzo e dall’informazione, per una serie di fattori tecnologici: invenzione della stampa e dei mezzi di comunicazione di massa. Questo aveva “ucciso” l’essenza della narrazione come mezzo primario per tramandare l’esperienza. Oggi assistiamo a una trasformazione analoga: la rivoluzione digitale sta “uccidendo” il cinema così come lo abbiamo conosciuto nel ‘900, cioè come specchio di un secolo».

Cosa accadrà nei prossimi anni? Riuscirà il cinema a adattarsi a questo nuovo mondo, oppure sarà per pochi eletti?

«Non è ancora detta l’ultima parola, ma possiamo osservare qual è la tendenza degli ultimi anni a livello globale: produrre film di genere seriali sempre più grandi e costosi per le masse e piccoli film sempre meno costosi, per nicchie sempre più piccole di spettatori cinefili e colti. Manca completamente la via di mezzo. Tutto lo spazio di sperimentazione che va dagli anni ’40 agli anni ’70 non esiste più. Significa che nell’ecosistema attuale autori come Fellini, Antonioni, Bergman, Orson Welles o Tarkovsky non riuscirebbero a produrre nemmeno un cortometraggio. C’è chi dice che lo spazio di sperimentazione si sia spostato alle serie TV, ma è vero solo fino a un certo punto, poiché questi investimenti devono rispondere necessariamente a studi e proiezioni basati su algoritmi che calcolano il rischio sulla base dei gusti del pubblico».

Il cinema fa quindi fatica a trovare i suoi nuovi autori.

«In Europa, per realizzare un’opera prima, ci vogliono anni di sviluppo, e molti film non trovano una distribuzione e non riescono ad arrivare a un pubblico che, per quanto piccolo, ancora esiste e cerca originalità e innovazione, non standardizzazione o remix di formule trite e ritrite. Se quindi da un lato le grandi piattaforme di film on line danno accesso a una grande quantità di contenuti, dall’altro, paradossalmente, riducono la possibilità di scoprire nuovi autori al di fuori della nostra limitata sfera di preferenze. Questo appiattimento è diseducativo per il pubblico, al quale film di maestri come Antonioni o Sokurov saranno sempre più inaccessibili. I giovani autori con una voce originale dovranno adeguarsi a logiche di mercato dettate da multinazionali e cercare di esprimersi entro i confini del nuovo impero digitale». 

Giuseppe Nativo 

 

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Alessandro Avataneo è un autore, produttore e regista cinematografico e teatrale. Laureato in Relazioni Internazionali con master in Storytelling, Performing Arts e Digital Entertainment, ha lavorato in più di 30 Paesi tra Europa, Stati Uniti e Giappone realizzando film, documentari, musical, format televisivi, videoclip, installazioni artistiche e di realtà virtuale. Ha pubblicato il romanzo Una storia delle colline nel 2009 e il primo Atlante del Vino Italiano nel 2015, scritto insieme a Vittorio Manganelli (enologo). Consulente dei governi italiano e olandese su progetti di tutela del patrimonio materiale e immateriale, ha curato negli anni numerosi eventi all’interno di siti UNESCO, gli allestimenti della Biennale di Architettura 2010 in Olanda e il dossier per la candidatura di Maastricht a Capitale europea della Cultura nel 2018. Insegna cinema e storytelling alla Scuola Holden di Torino.

 

 

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