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Riflessioni di un povero cristiano, di Giovanni Occhipinti

(terza e ultima parte)

 

Pubblichiamo, qui di seguito, un contributo a firma di Giovanni Occhipinti, figlio degli iblei, poeta, narratore e critico letterario tra i più apprezzati del secondo Novecento, che con le sue opere segna la sua già estesa presenza nel variegato panorama della letteratura italiana contemporanea.

Allo scopo di rendere la lettura più agevole, il presente saggio è stato suddiviso in tre parti che saranno pubblicate in rispettivi momenti diversi.

G.N.

 

 

Dicevamo prima del busillis metafisico... L'orrore della guerra, la bestialità dell'uomo nei campi di sterminio nazisti, il dubbio, l'incertezza, l'inganno, la paura, lo smarrimento di ritrovarsi soli con se stessi, senza la speranza di un miraggio "altro", di un futuro "altro", che restituiscano finalmente un equilibrio di fede per la certezza di un Ente che ci ponga assolutamente fuori e al di sopra del male e dell'angoscia di vivere è, sul nostro pianeta, il sostrato profondo della grande letteratura del Novecento (non solo italiano), divenendo, essa, il luogo "misterioso", ma anche il mezzo, nel quale l'uomo possa dare libero sfogo all'avventura del pensiero che soltanto in Dio può placarsi, al di là degli egoismi e della carnalità umana (e umanoide!) che sin dalle origini lo ha spinto all'orrore della brutalità e all'esperienza tragica dello sprofondamento ad inferos. 

In fondo è proprio su tutto ciò che vogliono farci riflettere sia il titolo del libro sia gli studiosi, tra i quali alcuni poeti e saggisti, che hanno contribuito con i loro interventi a rendercelo caro: da Marida Nicolaci a Carmelo Mezzasalma, da Vito Impellizzeri a Anna Maria Tamburini, Anna Baldini, Piero Stefani, Salvatore Ferlita, Loretta Marcon, Giuseppe Bellia, Aldo Gerbino, i quali hanno esemplificato le loro tesi con argomenti e analisi che hanno toccato i maggiori autori della nostra letteratura novecentesca: da Rebora a Turoldo; da Caproni a Santucci a Luzi alla Merini a Primo Levi a Giovanni Cristini a Cristina Campo, tutti all'insegna dell'incomprensibile dolore giobbico o giobbiano.

Carmelo Mezzasalma, per esempio, al di là del contributo critico, è autore di una poesia ricca di spiritualità e di riferimenti biblico-sapienziali. Consideriamo il suo recente Diario di preghiere (Edizioni Feeria, 2011), che tra l'altro ricorda l'edizione einaudiana (1997) a cura di Enzo Bianchi, Priore di Bose, e cioè  Il libro delle preghiere, un'antologia dei grandi autori del mondo nelle diverse epoche. Ebbene, Mezzasalma ci pone di fronte all'urgenza interiore della preghiera come domanda e invocazione; come perdono e contemplazione; come silenzio e auscultazione di sé; come evocazione, promessa, ringraziamento e, infine, come risposta alla seduzione di Dio: "[...]/ e la tua voce è là/la nostra pura pena".

Volendo ricordare il Salmo 137(136), che dà il titolo ai versi di Sui fiumi di Babilonia,  citiamo: "[...]/chi ci darà il pane sui fiumi di Babilonia,/chi farà rapidi i nostri passi oltre/l'oscuro mare delle sabbie?//Ad Emmaus, però, consegnammo/quella lettera di viaggio al Maestro/e il suo Pane di vita toccò invisibili/campane per la nostra anima [...]".

Uscire dall'esilio del quotidiano, dunque, nella grazia della preghiera, se si vuole indagare la metafora profonda della prigione dell'uomo sulla Terra-Babilonia e del suo interminabile dramma.

Carmelo, in questa sua poesia, e dunque anche nella vita, vive l'adesione al sentimento religioso come accostamento e tensione all'alterità, vive insomma la dimensione spirituale come alternativa al "reale" storico-fenomenico. Al contrario, i grandi e tormentati maestri della poesia soffrono la delusione sino a ribellarsi al loro dramma teologico. Vivono, insomma, il contrasto tragico (la hegeliana entzweiung), la dilacerazione, e citerei in proposito il grande Giorgio Caproni: "Un semplice dato: /Dio non s'è nascosto./Dio s'è suicidato"; o Giovanni Testori: [...]. Ma tu non parli/non dici,/sei il Dio sordo:/il Dio muto"; o padre Turoldo: “Sei dramma all'uomo/tu a te stesso dramma [...]”. Versi fatti di parole che risuonano come una eco di esasperazione giobbica e che potrebbero sintetizzarsi nella domanda straziante di Joseph Ratzinger (il Papa del "gran rifiuto", ma per eccesso di santità!), che visitando i campi di sterminio nazisti ebbe a esclamare smarrito: "Dov'eri, tu, Dio?". 

Ma ritorniamo su Mezzasalma, particolarmente quello di Un mistero di carne e di luce (edizioni Feeria, 2014), che si disvolge e si illumina lungo pagine di versi che si aggiungono a quelle, foltissime e varie, sulla letteratura del Natale e riuniscono insieme i grandi pensatori, scrittori e poeti del mondo nella domanda insistita e sofferta, ma speranzosa, intorno alla grazia e al mistero di Dio. Una piccola ma compatta summa teo-cristologica, nella quale l'interrogativo e l'interrogazione scuotono le certezze della fede, ma la elevano e la celebrano sull'altare penitenziale dell'esistenza, tra dolore e preghiera, tra speranza e riscatto dal male, nell'umana sopportazione del mondo, in nome della carità e dell'Assoluto spesso raggiungibili dai percorsi imprevedibili della meditazione. Ed è qua, a questo punto, che la poesia di Carmelo trae il proprio slancio dall'accento salmistico che può intonare versi come questi: “Talvolta/sui fiumi nascosti della vita/appendiamo le nostre cetre d'anima/scrutando sempre un futuro migliore” (Sui fiumi nascosti della vita).

Il poeta ci dà la misura di un'esperienza interiore nella quale è possibile la ricerca del conforto divino attraverso il confronto assiduo e dolente con gli inganni dell'eterno quotidiano che spesso tende a sminuire il sentimento d'amore e di dedizione, offuscando la gloria della carità, però alla fine confermandoci in Dio. 

Ma per comprendere meglio queste poesie sul Natale, e sul Natale del cuore, rimando alla bella e profonda e intensa e dotta e saggia postfazione di Bernardo Artusi.

 

L'esperienza artistico-letteraria è qualche volta, o spesso, una forma di approccio al mistero di Dio. Si pensi al Cristo-Dio di Dostoewskij o a quello di Miguel de Unamuno, al suo "Cristo di Velásquez", tra contemplazione e preghiera; o a quello di Bernanos o di Mauriac o di Gide o al Dio esistente di René Laurentin che ci richiama alla mente le parole di Pasteur prese in prestito da Jean Guitton:" Un po' di scienza allontana da Dio ma molta ci riconduce a Lui".

Al di là del piccolo cabotaggio verso la conoscenza è, per esempio, il Cristo di Elsa Morante e di Silone e di Saviane e di Berto e di Pomilio e di Caproni.

L'approccio al mistero di Dio è già nel Dialogo teologico tra fede e indifferenza ne La ricerca di Dio di Heinz Zahrnt, che pone la fede tra il rigetto di vecchie esperienze religiose e il desiderio di nuove dentro a una religiosità contemporanea che accompagna l'uomo lungo un nuovo cammino verso Dio. Insomma, il mistero di Dio è sempre vivo e assillante come una spina nel costato, un'idea fissa, un pensiero che mai abbandona, simile a un dolore ormai cronicizzato nell'esperienza dell'uomo o a un languore congenito, come in alcuni poeti del Novecento: da Curci a Fasolo a Margherita Guidacci (valga per tutti, L'altare di Isenheim); da Fabiani a Marvardi a Cristini a Ricchi a Mussapi ai sacerdoti Rebora e Domenico Anastasi (cfr.: Corale dei credenti); e poi a Luzi, Ceronetti, Lippi, Sablone, Barsacchi, Elio Fiore, Carifi, Mundula, Maura del Serra e altri. Già Nietzsche, in Al Dio Ignoto, invoca: "Conoscerti voglio, o Ignoto,/Tu, che mi penetri nell'anima/e mi percorri come un nembo,/Inafferrabile congiunto!"

In questo contesto è d'obbligo ricordare un grande poeta dimenticato, Antonio Bruno. Infelice come Leopardi e come lui fisicamente disarmonico; non lo ama, ma ne ama la poesia, pur se preferisce accostarsi ai futuristi (cfr.: Fuochi di bengala, 1917). Vive il tormento del suo essere nel mondo sino al suicidio (trentaduenne) a Biancavilla di Catania, dov'era nato nel 1891. Aveva scritto di sé: "[...]. Ma il mio passato fu sempre meco camicia di Nesso intessuta di fiori appassiti, di venerdì santi, di profumi evocatori, di fiale, di trine, di evanescenze [...]". In lui, ci sono la "notte" e il "buio" leopardiani, che in Quasimodo diventeranno  la "sera" e cioè la pena-dolore come unica macchia nella solarità di spazî preclusi a dimensioni metafisiche nelle quali vive, prigioniero, un "io" attratto dalla metafisicità, solo, tra morte e bellezza, come troveremo poi in Bartolo Cattafi e in Angelo Maria Ripellino ovvero ne L'allodola ottobrina e ne Le Idi di Marzo di Bartolo e in Autunnale barocco di Ripellino. Ma è così anche nel più giovane, e vivente, Aldo Gerbino, dalla cui poesia emana il fascino di un particolare gusto per le cose che, se anche non sono funzionali alla nostra realtà pratica, pure posseggono una profonda ricchezza che ci dà, nel linguaggio del passato, la misura del nostro presente e dunque del nostro essere e perfino dell'effimero che siamo. Un fatto di cronaca o storico o certe curiosità botaniche o zoologiche o biologiche, che Aldo può anche mutare in un "luogo" di riflessione, in un dato metaforico-esistenziale sui quali orchestra lo spartito di un lungo e sereno interrogarsi, affidato a note sommesse di motivi interiori, proprio come accade alla nostra soggettività quando sia toccata dalle ferite della vita. Una parabola esistenziale, dunque, nella quale il poeta condensa la sua filosofia di vita, come in dialoghi da Operette morali (cfr.: In una fabbrica di orologi per campanili e affini) intorno all'essere e al Tempo. Parabola, dicevamo, che alla fine si risolve in una contemplazione di thanatos e nella sua accettata inevitabilità, cioè nella sua naturale accadibilità.

 

Puntiglioso e ricco di idee, il saggio di Marida Nicolaci su Alda Merini. Ma qui, la poesia va indagata attraverso la psico-patologia, nella quale ha la sua prima scaturigine. Si vuol dire, con ciò, che l'ultima parola resta alla psichiatria, nel senso del rapporto follia-eros-sofferenza-creatività. 

La ricordo, Alda. Nei primissimi anni Novanta, al Salone del Libro, a Torino, manifestava tutto il suo cruccio, parlando, tra una sigaretta e l'altra, del dolore assillante inflittole dal rifiuto delle figlie e, testuale, dal "terrore, in manicomio, dell'elettrochoc". Con me, cedettero alla commozione, anche Vanni Scheiwiller e Rosario Rubbettino, allora miei editori.

Ecco, è proprio qui il sostrato profondo della sua poetica: nella diversità. Alda, fu creatura di pena, e questa pena ella perpetuò nei suoi versi, facendoli grandi. 

 

Scelta suggestiva, il contributo critico di Salvatore Ferlita ci parla di Giobbe secondo Guido Morselli. Anche se mette, quasi sullo stesso piano di sofferenza, il mito del personaggio biblico e Morselli. Quest'ultimo, pur se accetta, soffrendo, la morte di alcuni suoi congiunti, non riesce però a sopportare gli ingiusti rifiuti da parte di certi domineddio dell'editoria. Gli ex machina, che godono del sadico esercizio del pollice verso. Depresso e ferito nell'amor proprio, Morselli la fa finita.

Aveva ignorato il conformismo letterario che tanto lusingava l'editoria del Novecento. Gli bastava sentire il futuro e anticiparlo come in Dissipatio humani generis (1977); ma si pensi a un Guido Morselli profetico in Roma senza Papa (1974): un Papa che abbandona Roma e va a vivere in povertà. Un episodio tra Ratzinger e Bergoglio, nel nome della povertà evangelica e francescana e, dunque, nel nome di Dio?

Il problema scottante di Giobbe è la sofferenza e soprattutto Dio. L'Iddio  lontano dalle cose terrene e invisibile agli uomini. Noi, pur mendaci, violenti, ladri, assassini lo vorremmo accanto, come una sentinella, una balia, una guardia del corpo che allontani la sofferenza, il disagio quotidiano, la povertà, l'ingiustizia, l'odio, la persecuzione, e persino la nostra stessa perfidia e persino i nostri stessi miserabili inganni. E' difficile comprendere tutto ciò, ma osiamo desiderarlo, questo Dio, sino allo spasimo, a dispetto dei nostri stessi difetti o forse proprio per questi.

 

Quanto all'estensore di queste pagine, alla maniera di Giobbe: "[...]/Ecco, meschino sono io:/che cosa potrei a Te replicare?/Mi pongo la mano sulla bocca! /[...]".

Ma non solo: si considera un autodidatta per amore, che non vuole restare fuori dal "Cortile dei Gentili", dove risuona più spontaneo e sincero il grido di preghiera a Dio: "Esisti, perché io esista!"

 

Giovanni Occhipinti

 

La Letteratura del Novecento: Riflessioni di un povero cristiano (parte prima)

La letteratura del novecento (parte seconda)

 

Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

Paul Valéry

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