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  • Autore: Carlo Ruta, Franco Cardini et alii
  • Editore: Edizioni di Storia e Studi Sociali

Storia dei Mediterrani – Paesi, culture e scoperte dal tardo Medioevo al 1870

 

Ragusa, 22 maggio 2019 – Un altro ottimo progetto editoriale di «Edizioni di storia e studi sociali» dell’editrice Giovanna Corradini è andato in porto: è il secondo volume di Storia dei Mediterranei Paesi, culture e scoperte dal tardo Medioevo al 1870.

Vi ha lavorato un team di storici, archeologi e medievisti di alto livello: Emiliano Beri, Maurizio Brescia, Franco Cardini, Massimo Cultraro, Deborah Cvikel, Flavio Enei, Luca Lo Basso, Stefano Medas, Irena Radic Rossi, Renato Gianni Ridella, Eric Rieth, Carlo Ruta e Francesco Tiboni.

È il caso di dire “andato in porto” anche perché di porti, di navi, e persino di ancore si tratta nell’ottimo volume, che mette in risalto non solo la storia come comunemente intesa, ovvero come indagine storiografica su fatti, accadimenti e date, ma anche sulla tecnologia (qui ad es. la costruzione delle navi commerciali e da guerra) e sull’estrinsecazione del pensiero in relazione alla stessa storia e alla tecnologia, facendo considerare come le tre cose difficilmente si possano scindere se davvero si vuol capire un’epoca storica.

Gli autori iniziano l’introduzione ricordando al lettore come già nel primo volume sia stato inaugurato un metodo, un progetto di investigazione che ha come oggetto d’analisi il Mediterraneo, ma non inteso come uno schema scontato, riepilogativo (e sbrigativo) ma, appunto, ricco di spunti e punti di contatto tra aspetti che apparentemente potrebbero sembrare distanti e invece sono utili alla comprensione e ad una analisi accurata degli accadimenti. Il secondo volume parte da alcune fratture storiche che sono state punta di diamante del medioevo portando gli uomini del tempo dritti verso la modernità. Attorno a questo ruotano punti di vista diversi ma che alla fine compongono un mosaico in cui si analizza la Cristianità e l’Islam, l’Oriente e l’Occidente, il Levante e il Ponente e i rapporti commerciali e scientifici che si sono sviluppate tra le varie parti del Mediterraneo e che, specialmente dopo la decisiva battaglia di Lepanto del 1571 hanno posto punti fermi sia per la costruzione dell’Europa, sia per il destino della “Porta”, dell’Impero Ottomano.

I processi storici, come sottolineano gli autori, vanno letti diacronicamente e in una prospettiva di lunga durata, ma soprattutto sotto il punto di vista delle trasformazioni tecnologiche, e l’esempio delle varie fasi della tecnologia costruttiva delle navi è davvero importante. Ma un altro aspetto da tenere presente è il viaggio, inteso anche come incontro e mobilità tra i mercanti europei sulla via delle spezie e alla ricerca di coralli, per esempio. Il baricentro dei commerci, dopo la conquista di Costantinopoli del 1453, si spostò verso una nuova realtà imperiale e come scrive Franco Cardini «Se non si fosse creato il nuovo sultanato della Sublime Porta, il Mediterraneo, dopo la scoperta del Nuovo Mondo, sarebbe apparso ancora più periferico e decentrato». È in questa prospettiva che vanno letti i conflitti e le tensioni, anche quelle dovute alla presenza della Corsa, dei corsari barbareschi nel XV e XVI secolo e che portarono, di converso, alla militarizzazione delle coste italiane e iberiche.

Esemplare è il caso delle Repubbliche marinare, Venezia e Genova in particolare, la cui storia fu legata ai commerci ma anche alle Crociate ma soprattutto ad un intimo commercio e confronto con gli Ottomani e gli Arabi. Dopo Lepanto il dominio commerciale di Venezia non fece mai a meno del confronto (non solo lo scontro) con l’Oriente. Ma non solo la marina militare andava precisando e costruendo modelli vincenti e sempre più avanzati e moderni, grazie a questo confronto, ma anche la marineria commerciale ne traeva vantaggio e i maestri d’ascia e gli ingegneri navali affinavano sempre più le loro conoscenze e abilità.

Il Tirreno e l’Adriatico erano diventati oramai il centro propulsore delle attività “liquide”, come per gli antichi e i medievali era soprattutto il Canale di Sicilia (si pensi a Greci, Siracusani, Romani e Cartaginesi che attorno alle isole, Sicilia, Creta, soprattutto, si confrontavano) ma anche da un lato alle coste israeliane e dall’altro oltre le Colonne d’Ercole, in pieno Atlantico. Le vicende di questi mari e di questi marinai vengono analizzate soprattutto tra la battaglia di Lepanto e quella di Lissa del 1866, in cui Italia e Austria diedero all’Europa intera un nuovo insegnamento: era il crepuscolo della guerra marittima di tradizione velica ma anche «il momento di avvio della nuova guerra sul mare».

 

Il primo saggio è quello di Massimo Cultraro: Alla ricerca del Labirinto: umanisti, viaggiatori ed antiquari a Creta tra Medioevo e Rinascimento. L’autore prende spunto dalla vicenda della mitica Atlantide, di cui narrano il Criziae il Timeodi Platone, il continente che si inabissa, scompare ma che in effetti forse tutti cerchiamo ancora, in rapporto al Labirinto di Cnosso, a Creta. È il mondo dell’apeiron, del grande spazio senza confine, del ‘mettersi oltre’, fosse anche solo con l’immaginazione. Atlantide e il Diluvio Universale e i Padri della Chiesaè il titolo esemplare di un paragrafo di Cultraro, che parte dalle vicende del retore Tertulliano (tra il 196 e il 222 d.C.) e del suo Apologeticoche cita Atlantide come «una terra più vasta dell’Asia e dell’Africa, che venne inghiottita dall’Oceano Atlantico», echi che poi ritornano in Arnobio e portano a considerare un percorso che passa anche per il Concilio di Calcidea (451 d.C.), epoca in cui troviamo il nestoriano Cosma Indicopleuste che riprende il tema di Atlantide e della sua localizzazione. Segue poi Atlantide e il labirinto del peccatoin cui l’autore ricorda come gli antichi descrivessero in modo convinto un parallelo tra Teseo che deve attraversare il mondo degli Inferi (simboleggiato dal Labirinto) e Gesù Cristo, guida che conduce il defunto nel mondo dei padri. E poi Gerico, con il suo labirinto circolare e il Ritorno a Gericocon il Labirinto di Gortina, miti, storie ed echi che conducono ad Atlantide e al Nuovo Mondo, la cui scoperta «segna un punto di svolta nella storia del mito di Atlantide, interferendo su due differenti piani dell’interpretazione e della comunicazione»: un livello che spezza il legame simbolico e religioso tra Creta e il Labirinto e in secondo luogo l’aggiornamento della geografia e della cartografia che oltre il mondo conosciuto lascia intravedere «nuovi labirinti».

 

Carlo Ruta scrive L’Europa e le rivoluzioni della prima modernità tra scoperte geografiche e innovazioni tecnico-scientifiche. Ruta parte dalla considerazione che i cambi di passo della storia sono originati da molteplici fattori che spesso si intrecciano e si presentano agli snodi della storia coordinati, come accade tra XV e XVII secolo, epoca in cui il Medioevo stava per finire e prorompeva fortemente la Modernità e con essa la scienza, il metodo, il pensiero moderno, filosofico ma anche economico. I viaggi arricchivano queste nuove conoscenze e una nuova presa di coscienza del potenziale tecnologico dell’homo fabercon nuove scoperte (si pensi semplicemente alla bussola, apparentemente semplici ma anche dirompente e geniale che permetteva di orientarsi anche nelle più avverse condizioni). L’esempio di Giovanni di Pian del Carpine precede quello di Marco Polo. Venezia “scopre” la Cina, nuovi costumi, ma anche Genova non è da meno, altra grande città in cui il viaggio è non solo metafora ma anche realtà che crea potenza economica. Nella storia del pensiero c’era in atto un processo che poneva in discussione assunti e valori assodati, già nel XII secolo, con gli scritti e le idee di Alcuino da York, Rabano Mauro, Giovanni Scoto Eriugena, ma ancor prima anche con Anselmo da Aosta (l’autore della prova ontologica dell’esistenza di Dio) e con Guglielmo da Ockham e il suo “rasoio”. Era soprattutto la ripresa di Aristotele, con cui si cercava di combinare fede e intelletto in modo virtuoso, le istanze religiose con la nascente, imperante e rinnovata logica. Una riflessione lunga e feconda, quella dei filosofi medievali, che si feconda di idee cristiane, ebraiche ed islamiche, con Ibn Rushd (Averroè) e Mosheh ben Maymon (Maimonide) le cui «elaborazioni  lanciavano un aristotelismo per certi versi inedito, razionalistico», dice l’autore, arricchito dal contatto con le scienza naturali, mentre la fisica dello stesso Aristotele viene superata (ma mai dimenticata) e gli stessi interpreti del cattolicesimo respirano nuova aria, convintamente aristotelica ma anche con una specifica attenzione al «metodo», come in Alberto Magno e Tommaso d’Aquino e in Ruggero Bacone. Teorie «profondamente diverse», arabo-andaluse, giudaico-cristiane e orientali che però si interrogano, si intersecano e si compenetrano, creando quello che oggi definiremmo il pensiero moderno, che supera ma non rinnega le sue origini dai sillogismi che si insegnavano nelle scuole di retorica, nel Trivium e nel Quadrivium, aprendosi sempre di più a nuovi apporti ed idee, partendo dalla Scolastica per giungere a grandi innovatori del pensiero, come Marsilio Ficino e Nicola Cusano, o Bernardino Telesio e finanche, con un pizzico di «eresia» con Pietro Pomponazzi. Fino ad arrivare a Gutemberg e al prorompente effetto della stampa anche nella diffusione delle idee. Ruta nota come anche «nel XV secolo le tecniche e gli strumenti a disposizione del mondo nautico si dimostravano in linea con le tensioni, i bisogni e le aspirazioni, anche egemoniche, dell’epoca». Mappe, carte nautiche, portolani e, come detto, la bussola, e poi la stampa cambiano in modo decisivo la stessa idea di andar per mare, offrono sicurezza e conoscenza, oltretutto. Nicola Cusano assimila «in maniera eclettica» gli orientamenti del suo tempo e anticipa Copernico proponendo una nuova visione del mondo. E si arriva a Petrarca, Flavio Biondo e gli Umanisti che cambiano anche il rapporto dell’uomo con gli scritti del passato, la filologia diviene scienza determinante e si impone come metodo parallelo a quello delle scienza naturali, la storiografia si basa sulla logica e sulla ricerca e non più sui miti e le leggende ed anche se il mondo, per il momento, restava legato a Tolomeo, la geografia restava in parte legata a Strabone ed Eratostene e la fisica era sostanzialmente quella di Aristotele, dopo Cusano si arriva ad un movimento di pensiero che va da Copernico a Leonardo da Vinci e Galileo Galilei e che scardina il sentire comune, e in parte ritorna ai presocratici, che conoscevano la sfericità della terra e l’avevano misurata. Lo strabismo di alcuni era oramai vinto dal cannocchiale di Galilei, che non era solo strumento astronomico ma anche metafora di «occhi nuovi per un mondo nuovo».

 

Francesco Tiboni propone un bel saggio su Navi e barche al tempo delle Repubbliche Marinare. Appunti sul ruolo della cantieristica minore. L’autore analizza il passaggio della tecnica navale dal mondo romano e bizantino a quello medievale e moderno avvertendo che «per comprendere come la cultura marittima e navale di queste città stato [Venezia, Genova…] si sia sviluppata, non basta affrontare la questione prendendo spunto dalle grandi tematiche della storia», bisogna analizzare anche la cantieristica minore, occuparsi della progettazione delle carene, del fasciame, delle tecniche con cui assemblare le imbarcazioni, delle essenze più opportune per legni, alberi di maestra, bompresso e fiancate… preoccuparsi di capire le idee che portarono a scafi più stabili, più veloci, più efficienti. I liguri erano maestri in questo e ci riportano alla mente scafi diversi: galee, barche, brigantini, buci, caravelle, galeoni, lembi e poi navi e navigli. La galea genovese è regina dei mari nel Medioevo e nella prima Modernità. Essa era costruita a scheletro portante, con rivestimento di quercia. Tiboni ne analizza la costruzione e rende edotto il lettore di termini tecnici e concetti utili a capire l’evoluzione delle tecniche costruttive e, attraverso anche documenti d’archivio, mette in luce aspetti apparentemente secondari, ma invece molto importanti, come quello delle misure e delle unità di misura: la goa (guao cubitum), il palmo e il dito che erano proporzionali e misure chiave nella costruzione delle navi.

 

Erich Rieth scrive Progettare e costruire navi nel Medioevo nel Mediterraneo. Dati archeologici e fonti scritte: una lettura incrociata. Analizza il progettare e il fare nell’architettura navale medievale come si ricava da alcune preziose fonti archeologiche, come i relitti Contarina 1 (delta del Po) e Boccalama (Venezia) e documenti notarili e fondi archivistici (Valencia, Barcellona, Marsiglia, Genova, Venezia), scritti come i Libri delle ricette tecniche. Fonti scritte e relitti danno un quadro molto preciso delle tecniche costruttive e delle esigenze di mastri d’ascia e carpentieri ma anche di marinai e ammiragli che poi quelle navi dovevano governare. Passa quindi al paragrafo Costruire le naviin cui analizza in primo luogo le caratteristiche anatomiche e i marchi architettonici per poi arrivare a Le origini della costruzione su scheletro e le diverse vie di evoluzione dell’architettura navalein cui spiega ad es. l’importanza della concezione longitudinale a guscio portante e quella trasversale su scheletro. Il passaggio dal guscio allo scheletro avviene lentamente ma è molto interessante studiarne l’evoluzione. Nel paragrafo Progettarel’autore aiuta il lettore a capire tre concetti facenti parti di un metodo di costruzione delle navi mediterranee: l’uso che i costruttori facevano di mezzogarbo, trebucchetto e tavoletta, con cui si passava dallo schizzo alla progettazione, alla realizzazione dello scafo. Infine espone altri metodi alternativi.

 

Renato Gianni Ridella propone il saggio Mercanti di cannoni. Produzione di artiglierie per la difesa del naviglio commerciale nel Mediterraneo del XVI secolo. E già il titolo fa capire che si tratta di altri importanti accessori della nave, e più che accessori diremmo parti necessarie per la difesa: i cannoni. L’Autore analizza relitti di navi armate cinquecentesche, come la genovese Lomellina (1516) e la veneziana Balancera (1588) e dello stesso anno la catalana Juliana, ma anche altre, come la Gagliana grossa (1583), veneto-ragusea. Passa poi ad analizzare Artiglierie commerciali marittime in documenti d’archivio cinquecenteschida cui apprendiamo di petriere, colubrine, smerigli, falconi, minions e altri tipi di cannoni e pezzi di artiglieria, delle loro misure, della loro gittata, ecc… Anche questo aspetto è necessario studiare per comprendere i rapporti di forza e le battaglie che si vincevano o perdevano non solo per le circostanze o l’acume degli ammiragli ma anche per la dotazione dell’artiglieria.

 

Irena Radić Rossi (con Mauro Bondioli e Mariangela Nicolardi) esamina la suddetta Gagliana grossa: le curiose storie di una nave veneziana (1567-1583), partendo dall’analisi, appunto, del relitto di Gnaliće dall’analisi della nave Lezza, Moceniga e Basadonna, il cui atto di fondazione risale all’incontro, in Piazza San Marco, il 18 aprile 1567, tra i nobili veneziani Lazzaro Mocenigo, Benedetto da Lezze e Piero Basadonna. Nel 1571 (anno famoso per la battaglia di Lepanto) la nave Lezza, Moceniga e Basadonna viaggiava verso Corfù con a bordo 605 soldati e 75 uomini d’equipaggio. Non lontano erano le galee ottomane di Uluç Ali beylerbey(governatore generale di Algeri, detto dai veneziani Occhialì). La nave della Serenissima venne colpita, i Leoni di San Marco resistettero con orgoglio e valore, ma non ci fu nulla da fare. Leggiamo poi la storia della nave Gagliana Grossa e di Alvise Finardi, suo ultimo comandante. Anche qui eroismo e affondamento sono le parole chiave con cui interpretare gli eventi. Bella la storia del recupero delle merci, con i tesori, le perle e 53 braccia di broccatello che il Senato aveva fatto imbarcare per far giungere al bassà ottomano. Una cassa non registrata conteneva denaro e pietre preziose per un valore di circa 7243 ducati.

 

Luca Lo Basso scrive Traffici mediterranei. Corallo e spezie tra Genova, Marsiglia, Livorno e Alessandria d’Egitto alla fine del XVI secolo. Il corallo, l’oro rosso e la sua crescente importanza: quando, nel 1570 Giogio Vasari lavorava allo studiolo di Palazzo Vecchio del Granduca Francesco I il corallo era noto da tempo e il suo valore cresceva sempre. L’autore analizza la pesca e il commercio, tra Genova, Marsiglia e Livorno (poi per Sardegna e Corsica): un sistema integrato per lo smercio. Pesca e commercio non facili e piuttosto soggetti alle incursioni barbaresche, e poi alle imposizioni fiscali dei vari stati. Anche da qui si legge la storia del Mediterraneo, dall’oro rosso spedito da Ajaccio in Egitto.

 

Franco Cardini intitola il suo saggio Cristianità e Islam fra Lepanto e Vienna (1571-1683). L’analisi dei rapporti tra europei e ottomani, tra cristiani occidentali e musulmani è particolarmente interessante tra due date: quella della battaglia di Lepanto (1571) che apparentemente segna la ritornata supremazia occidentale ma allo stesso tempo paradossalmente rafforza le posizioni turco-ottomane (ad es. a Cipro e in Nordafrica) e quella di Vienna del 1683. Il Mediterraneo è ancora una volta il teatro di scontri e confronti tra Cristianesimo ed Islam. Nel XVI secolo esso entra in una crisi apparentemente episodica ma invece strutturale e di lungo periodo dato che «la scoperta del Nuovo Mondo e la pratica della circumnavigazione del globo avevano precipitato il Mare Nostrumin una condizione di periferia e d’impoverimento, riducendolo ad un golfo dell’Oceano Atlantico». Si confrontavano anche personaggi importanti nello scenario internazionale, come Carlo V d’Asburgo che era sovrano anche di regni spagnoli, e d’altro canto aveva assunto notevole importanza il sultano di Istanbul (la Costantinopoli dei Bizantini). Il re di Francia si sentiva stretto tra Spagna e Germania e si sentiva vicino al sultano proprio perché anch’egli nemico dell’imperatore romano-germanico e del re di Spagna. In questo contesto si inserire la lunga vicenda della Guerra di Cipro (1570-1572). Tra il 1520 e il 1566 un protagonista della storia era Solimano detto «il Magnifico», per i musulmani al-Qanûni, il Legislatore, e questo epiteto lo riallacciava alla tradizione giustinianea, sottolineando una continuità tra Impero Romano e Impero Ottomano. L’Occidente era in qualche modo tranquillizzato dalla sua lungimiranza. Ma con il successore Selim II (1566-1574) le cose cambiarono e dopo la pace di Adrianopoli del 1568 gli ottomani si proposero aggressivamente sullo scacchiere occidentale. Nel 1569 Uluç Ali occupò Tunisi, nel 1570 Famagosta, ultima avanguardia della Serenissima, si arrese. La vittoria di Lepanto del 1571 (contro Occhialì) fu grandiosa e citatissima nei libri di storia, ma secondo Cardini il contesto del trionfo era ben fragile e «i fatti sembravano dar ragione all’imperatore Massimiliano II che – nonostante fosse, in quanto cugino di Filippo II, legato al “patto di famiglia” con i parenti e alleati di Asburgo di Spagna – non aveva voluto scendere in campo» e aveva preferito pagare al sultano un tributo. Le conseguenze della vittoria di Lepanto non erano state sfruttate a dovere. Nel 1572 la Santa Lega fu rinnovata e il papa Pio V inviò ai fedeli una lettera con la quale «conferiva alla nuova fase della lotta antiottomana l’inequivocabile valore di una rinnovata crociata». La storia a cavallo dei due secoli seguenti porta a considerare che la decadenza dell’Impero Ottomano era ben lontana o forse impossibile. D’altro canto, l’Occidente «aveva spiccato il volo» e non poteva tirarsi indietro: altri scontri con il nemico si profilavano. Si cercavano, invero, punti di accordo, ad es. con Tommaso Campanella (De monarchia Hispanicae Ecloga, tra il 1600 e il 1638) che salutava il Serenissimo Delfino di Francia (Re Sole) come orbis christiani Summa Spes. Ma il lungo periodo di pace apertosi con la tregua turco-veneziana del 1573 e quella turco-spagnola del 1580 terminò nel 1645 quando gli Ottomani assaltarono la Candia veneziana a Creta. I giannizzeri si ribellarono nel 1648 e abbatterono il sultano Ibrahim I e lo stesso anno finiva la Guerra dei Trent’anni con la pace di Westfalia, con accordi che escludevano i turchi. Dopo altre e varie vicende, s’arriva all’assedio di Vienna del 1683. Il gran vizir Kara Mustafà assedia la città mitteleuropea, mentre Re Sole annette alla Francia Alsazia e Lorena con Saar e Lussemburgo e invade i Paesi Bassi spagnoli. Invero Mehmet IV non avrebbe voluto passare all’assedio ma si sa che le ragioni del saccheggio sono forti. I viennesi si difesero strenuamente con Rüdiger von Stahremberg e i nemici furono battuti a Kahlenberg il 12 settembre del 1683 dall’arrivo del duca di Lorena e del re di Polonia Giovanni III (noto come Jan Sobietzki) con un esercito di polacchi, sassoni e bavaresi.

 

Emiliano Beri scrive «Contro i corsari barbareschi» una guerra permanente nel Mediterraneo di età moderna. E «guerra permanente» è la chiave di lettura della piaga della Corsa, che non terminava almeno sino all’Ottocento. La corsa barbaresca prende piede e cresce nel Mediterraneo intorno al XVI secolo, quel mare del conflitto tra il blocco italiano-ispanico e quello ottomano. La riconquista di Tunisi nel 1574 rappresenta l’ultimo atto del conflitto, a favore della Porta. L’autore analizza i modelli di difesa, dal trattato alla bandiera ombra (la cui sperimentazione fu assai importante), passando per la deterrenza, e la protezione delle rotte con vari sistemi, non solo militari, e in ultimo anche dell’‘intelligence’ perché «l’azione militare è intrinsecamente legata alla disponibilità di informazioni».

 

Flavio Enei prende come caso di studio Lo scalo portuale di Santa Severa dall’età feudale al XVIII secolo. Una microstoria importante che testimonia l’evoluzione dell’antica Pyrgi di età etrusca e romana e che diventa uno scalo strategico per Roma verso Civitavecchia; dirimpettaia di Alalia in Corsica, Santa Severa ha fornito ai marinai del Tirreno che provenivano da sud un punto di sosta riparato per bordeggiare verso l’Argentario. Vi passarono l’ossidiana di Lipari, sarda e pontina del Neolitico, il vino, l’olio, il grano e il ferro, ma vi passarono poi anche papi e ambasciatori. Santa Severa fu proprietà delle grandi abbazie, come informano fonti ad es. del 1084 quando Enrico IV conferma il possesso del monastero farfense. Poi vi furono possedimenti benedettini e nel 1130 un possedimento del Monastero di San Paolo. La località è citata nel trattato di pace e alleanza stipulato tra Genoa e Roma nel 1166 per regolare i rapporti di assistenza alle navi che transitavano lungo la costa tirrenica tra Capo Linaro e Capo di Anzio. Il castello di Santa Severa appare molto popolato tra l’XI e il XIII secolo e reperti archeologici lo confermano. Occasionale passaggio di merci dalla Sicilia e dall’Impero Bizantino è testimoniato dalle fonti e dai reperti. Il borgo e il castrum erano circondati da diversi casalini e v’era una torre «saracena» per l’avvistamento e la difesa. Nel 1633 venne visitata dal papa Urbano VIII. L’autore analizza le fonti che testimoniano della proprietà di famiglie romane, come i Tiniosi e i Bonaventura-Venturini, cui seguirono i Di Vico, gli Anguillara finché la proprietà passò all’Ospedale del Santo Spirito. Tra il 1513 e il 1519 anche papa Leone X e la sua corte vi soggiornarono e negli Annali Ecclesiastici si cita un muro fatto costruire da «Leo X Pyrgorum porto…». Nel 1580 vi giunge Gregorio XIII con cinque cardinali ai quali il commendatore in carica Aldrovandi offre un lauto banchetto. Altro papa, Sisto V, nel 1588, ordina alle navi della sua flotta di raggiungere Santa Severa per potare lui e il seguito di 1000 persone a Civitavecchia, anche se poi dovette cambiare programma e andare via terra. Non solo papi: nel 1615 soggiorna a Santa Severa l’ambasciatore giapponese Hasekura Tsunenaga, che attraversa gli oceani per giungere a Roma a conferire con Paolo V; egli soggiorna prima in Messico, poi parte, arriva a Genova, a Civitavecchia e quindi a Santa Severa. L’autore tratta poi le sorti della tenuta di Santo Spirito da Urbano VIII fino a Francesco Tofani, in particolare analizzando un manoscritto di 900 pagine che è un documento fondamentale per la storia di Santa Severa.

 

Deborah Cvikel ha scritto il suo saggio su I relitti del periodo Ottomano ad Akko, Israele, ovvero a San Giovanni d’Acri, come veniva chiamata la città dai medievali, nota soprattutto all’epoca delle crociate ma esistente già sin dall’età del Bronzo. Ad Akko vi è un importante porto in cui sono stati rinvenuti alcuni relitti, in particolare vicino all’isoletta detta Torre delle Mosche. I relitti detti Akko 1 e Akko 2 studiati di recente sono particolarmente interessanti. Akko 1 è affondato all’ingresso del porto e i resti sono disseminati per 23 metri circa a circa 4 metri di profondità, purtroppo se ne può apprezzare solo la parte bassa della murata di babordo, l’unica ben conservata, come del resto anche la chiglia, alcuni legni di prua, un dormiente e poco altro. Questi rinvenimenti si pensa siano scafi databili tra la fine del XVIII e la metà del XIX secolo, come dimostra l’analisi al 14C AMS (spettrometria di massa con acceleratore per il rilievo del Carbonio-14). A breve distanza da Torre delle Mosche si trova lo scafo Akko 2 del quale sono state registrate 39 elementi lignei, tra cui spiccano tavole del fasciame, parte della chiglia e poco altro. Questi legni vengono attribuiti alla Pinusbrutia e grazie all’analisi 14C AMS vengono datati tra XVI e XVII secolo. L’imbarcazione forse serviva come chiatta di servizio nel porto, viste le caratteristiche dello scafo (chiglia, ordinate, ecc…). Vengono poi citate altre imbarcazioni, tra cui quella detta Akko 4. L’autrice, infine, cita i testi storici che parlano di Akko riferendosi ad un fatto del 1799: lo squadrone di Sidney Smith giunse in aiuto degli Ottomani contro l’esercito assediante di Napoleone Bonaparte. Il sito è indubbiamente molto importante anche a livello didattico e molto frequentato dagli archeologi e dagli studiosi di archeologia subacquea e marina.

 

Stefano Medas intitola il suo intervento Alla ricerca dell’ancora perfetta. Il Trial of Anchorsall’Arsenale di Sheerness nel 1852.Non è difficile immaginare come anche una “semplice” ancora può fungere da esempio per analizzare come l’evoluzione tecnologica sia elemento importante per comprendere gli snodi storici, attraverso le vicende della marineria. Medas cita Joseph Conrad quando afferma che «Un’ancora di ieri era a suo modo uno strumento altamente perfetto. Della sua perfezione fa fede la sua dimensione, dal momento che non esiste un altro arnese piccolo così, ma così adatto al grande lavoro che deve fare … dalle ancore dipenderà più di una volta la vita stessa della nave». Viene trattata l’evoluzione di questo piccolo ma grande arnese, fino ad arrivare alla forma oggi più comune, quella detta Ammiragliato, trattando le forme delle marre, il ceppo prima in legno poi in ferro, il fuso, e le altre parti e le esigenze costruttive, non ultime quelle per evitare che le cime si attorciglino intorno all’ancora stessa rendendone difficile il recupero. Quanto agli altri tipi, un’ancora senza ceppo venne brevettata da R. F. Hawkins nel 1821 e prese nome da lui, più di recente si ebbero le ancore Martin, Hall, Byers, ma certo la Ammiragliato ancora dominava i mari. Nel 1852 la Royal Navy sponsorizzò un test, il Trial of Anchors presso l’arsenale di Sheerness, 50 km da Londra. Nel trial furono analizzate varie ancore e vi furono dati dei punteggi, il maggiore dei quali spettò all’ancora detta Trotman, che però non ebbe, nonostante questo, il successo sperato e fu sempre battuta dall’Ammiragliato.  Due esemplari di Trotman (ancora senza ceppo) erano nel Titanic, naufragato nel 1912. In seguito, si studiarono ancora senza ceppo ma con una importante innovazione: le marre basculanti e furono proposti altri brevetti che tentavano di conciliare la semplicità e popolarità dell’Ammiragliato con le novità Hawkins e Trotman. Si ebbero così i brevetti Piper, Porter e Trotman stesso. Tra la fine del XIX e il XX secolo le ancore senza ceppo presero il sopravvento, specialmente nelle navi militari. Nel saggio si analizzano anche le misure proposte dalle fonti ed altri elementi molto interessanti.

 

Maurizio Brescia scrive su La battaglia di Lissa nell’iconografia coeva italiana e austroungarica. L’autore parte dalla considerazione delle vicende successive alla Seconda Guerra d’Indipendenza, quando, a partire dal 1860 furono unificate le marine sarda, borbonica, siciliana, pontificia e toscana e nacque la Marina Italiana, che fu Regia Marina Italiana nel 1861 il 17 di marzo. Si tratta delle varie navi e corazzate, tra cui la Principe di Carignano, la Re d’Italia e la Re di Portogallo, poi Varese, Palestro, Roma e Messina e il rivoluzionario ariete corazzato Affondatore. Nel 1865, intanto, in Austria viene nominato contrammiraglio Wilhelm von Tegetthoff. In Italia, invece, l’ammiraglio è Carlo Pellion di Persano, contrastato dagli ammiragli Albini e Vacca che pretendevano il suo posto. La Marina austriaca faceva base a Trieste con il pirovascello Kaiser e le fregate corazzate Drache e Salamander ed altre importanti corazzate. Il 20 giugno 1866 l’Italia dichiarò guerra all’Austria e Persano fece dirigere la flotta in Adriatico. Le navi italiane giunsero ad Ancona e poi Persano, l’8 luglio, uscì dal porto in cerca del nemico. Il 18 luglio fu bombardata l’isola di Lissa ma gli ammiragli Vacca e Albini decisero, senza consultarsi con l’ammiraglio Persano di ritirarsi anzitempo. Dopo varie vicende le navi austriache riuscirono ad infliggere gravi perdite alle italiane, la Palestro, bombardata, prese fuoco ed affondò, mentre Persano con l’Affondatore inseguiva il nemico. Tutto inutile, Lissa fu una grave sconfitta e Persano venne anche processato e privato del grado, espulso dalla Marina. L’unico risultato ottenuto, fa notare Brescia, fu il trattato del 19 ottobre 1866, a conclusione della Terza Guerra d’Indipendenza, che unificò Venezia e il Veneto all’Italia. Queste vicende drammatiche sono testimoniate anche dall’acquarellista Ippolito Caffi che si trovava nel teatro di guerra e ha lasciato interessanti dipinti in cui si leggono i dettagli delle navi italiane, peccato che alcuni di questi sono andati perduti nell’affondamento della Re d’Italia, altri erano a bordo dell’Indipendenza e sono ora conservati al Museo Storico Navale di Venezia. Il pittore ha rappresentato l’Ettore Fieramosca (in servizio dalla Marina Borbonica, 1850) in un dipinto in cui si vede anche la Palestro, poi il Guiscardo e la Maria Adelaide. L’acquerello migliore raffigura la corazzata Ancona, per cui lo stesso artista indica che si trovava «in stato di riposo» (bandiera inferita sull’asta di poppa). Brescia nota come anche altri artisti hanno lasciato testimonianze iconografiche su alcune battaglie navali, per esempio Giovanni Selerio con Il combattimento navale di Lissa. Ovviamente diverso, e più pomposo e trionfalistico il lavoro di artisti austriaci, i vincitori che rappresentavano soprattutto il pirovascello Kaiser, mentre gli italiani privilegiavano la raffigurazione dell’Affondatore; Persano, che ne era il comandante, fu il capo espiatorio della battaglia di Lissa, indimenticabile sconfitta.

 

Questa lunga recensione è, tutto sommato, solo una breve sintesi di un bel volume di 444 pagine. Avremmo voluto riportare tutto e commentare tutto, ma non vorremmo anche togliere ai lettori la curiosità di leggere il libro e tutti i saggi in esso contenuti, magari poco dopo aver letto il primo volume di Storia dei Mediterranei, che parte dai primi “vagiti” di navigazione, dall’eneolitico e dall’Età del Bronzo per arrivare al Medioevo. Questo secondo volume porta avanti la ricerca quasi fino ai nostri giorni in modo magistrale ed anche affascinante. Un libro da leggere e rileggere, un percorso su cui meditare per riflettere su una storiografia non convenzionale, modellata sui fatti, sulle date, ma anche sugli uomini, sulla storia del pensiero, sull’evoluzione tecnologica, su aspetti non secondari e non trascurabili se si vuole capire l’evoluzione della storia, fatta di snodi, percorsi e spesso anche labirinti, forse più intricati di quelli di Cnosso o di Gerico. Gli autori di questo volume ci danno l’opportunità di questa riflessione che apre orizzonti, alla ricerca di Atlantide e delle nostre origini mediterranee.

 

Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

Paul Valéry