Attualità e Cronaca
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«Ho ancora in mente il suono cupo e assordante di quelle sirene che annunciavano già, solo a sentirle, paura, terrore e sangue. Non sapevamo dove la bomba poteva essere lanciata, ma la distruzione era assicurata».

«In un sottopassaggio, ci rannicchiavamo l’uno contro l’altro. Tra noi c’era un senso di unione, anche tra non conoscenti, una complicità sottintesa perché la paura cancella ogni forma di estraneità, ci fa sentire uguali di fronte al pericolo. Per strada solo il guaito di cani, impauriti anche loro, spaesati in cerca anche di un riparo, di un ritrovo o forse del loro padrone. Intorno a noi il nulla. Cibo e acqua razionati, a volte mancavano per settimane. Pensate, giorni e giorni senza potersi lavare, senza potersi cambiare, senza poter fare nulla. Solo aspettare. L’energia elettrica era altalenante e quando c’era, tutti a caricare i nostri cellulari, l’unico mezzo per comunicare con il mondo esterno. In cielo gli elicotteri volavano bassi come rapaci in cerca di una vittima. Anche quando cessava il coprifuoco, si era titubanti ad uscire per paure di rappresaglie, perché non si sapeva se fosse una beffa dei russi, un modo per farci venire fuori allo scoperto.

Non si trovava nulla da mangiare, solo pochi prodotti provenienti dall’orto. Uova, qualche verdura scambiati, o meglio barattati con qualcos’altro. I pochi soldi che circolavano sarebbero dovuti servire per fuggire e per sopravvivere ad un futuro incerto, probabilmente in un paese diverso, in un tempo indefinito. Nessuno sapeva quanto sarebbe durato quello scempio di una strage fratricida, perché noi ucraini e russi, siamo un popolo solo, abbiamo la stessa cultura, la stessa religione, lo stesso ceppo etnico.

Noi ucraini, siamo gente semplice, operaia. I nostri uomini lavorano nelle miniere, fanno i lavori più pesanti e noi donne siamo spesso costrette ad andare nei paesi più ricchi per lavorare come assistenza ai più deboli, oppure come domestiche. C’è povertà per molti e opulenza per pochi, benessere e sicurezza per pochi e disoccupazione e repressione per altri. I tre quarti della ricchezza è in mano ad oligarchi e noi, gente di popolo, viviamo per lo più, una vita misera, di lavoro e sacrifici. Io, tuttavia, mi sento fortunata - continua Irina - sono viva e mi trovo in un paese ospitale e amico. Sogno però di ritornare nel mio paese. Lì ho lasciato il mio cuore e lí voglio ritornare, nella mia Ucraina sebbene oggi, che sono sana e salva, sento ancora nelle orecchie il suono mortale di quelle sirene».

 

È il racconto di Irina. Una storia uguale a tante altre donne costrette a fuggire da una guerra assurda, una guerra che ha destabilizzato le certezze, che ci sta lasciando tutti allibiti e che solo con la mediazione dei leader del mondo, forse possiamo uscirne. Questa guerra sta mietendo troppo dolore, troppe madri stanno piangendo i loro figli e tanti figli non rivedranno più i loro padri.

La guerra non ha un senso, se non quello del potere famelico del più forte per dividere i popoli e lucrare sulla sofferenza dei più deboli.

Nonostante ciò, la speranza non deve mai lasciarci e occorre guardare con occhi rivolti verso il futuro.

 

Gabriella Fortuna

 

Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

Paul Valéry

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