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  • Argomento: Letteratura

Gesualdo Bufalino, come molti siciliani, è di cultura francese; il suo linguaggio è iperletterario e la libertà stilistica si nutre di una coscienza morale per l’amore viscerale della Sicilia come appare nelle due sue opere intitolate La luce e il lutto (Sellerio, Palermo, 1988) e Museo d’ombre (Palermo, Sellerio, 1982). Prima di presentarle mi sembra però opportuno accennare alla sua vita per mettere in evidenza le tappe più significative della formazione culturale.

Nasce il 15 novembre del 1920 a Comiso, ri­dente cittadina del territorio di Ragusa. Il padre Biagio, che eser­citava il mestiere di fabbro ferraio, avendo grande passione per la lettura, disponeva di una piccola biblioteca. Possedeva un Dante illustrato da Dorè, un Jacopo Ortis, un Melzi 1909, un Fabbro del convento, Il mistero del poeta di Fogazzaro e I Miserabili di Victor Hugo.

Leggendo il risvolto di copertina dell’edizione Il Guerrino (1993), sappiamo della giovanile esperienza di garzone a botte­ga d’un pittore di paladini per carri, che gli si stampavano nel­la mente, unitamente alla passione di spettatore dell’opera dei pupi. Ricordarndo gli spettacoli che si tenevano per la festa del santo pa­trono, restava sedotto dagli eroi paladini assieme ai vecchi pupari dell’isola che recitavano le storie dei Reali di Francia. Guerrino era il più accattivante, e il libro di Andrea da Barberino, che ne parlava, era letto dal padre, chiamato da Bufalino “dilettante lettore”. 

Frequenta il Liceo dapprima a Ragusa e poi a Comiso dove ha come insegnante il valente dantista Paolo Nicosia. Malgrado il sofferto ritardo culturale, di almeno trent’anni, nella sua remota periferia, perfino mancante di biblioteche ag­giornate, quelli sono gli anni degli studi classici, ma anche della scoperta della moderna letteratura europea, in particolare di Bau­delaire, e del cinema sia americano che francese (da quest’ultimo, il filone più letterario ad opera di Renoir, Duvivier, Carnè). E va ricordata la passione per i film muti o del primo sonoro in particolare, per gli scacchi, per la musica classica e il genere jazz unitamente al sassofono di Charlie Parker. Intraprende gli studi universitari, nel 1940, a Catania, iscrivendosi alla Facoltà di Lettere. Interrot­ti, nel 1942, a seguito della chiamata alle armi, porta con sé appunti, nonché alcuni libri particolarmente amati: una retroversione de I fiori del male di Baudelaire, fatta tra i sedici e i diciotto anni, dall’italiano in francese, dato che il testo originario era allora irreperibile in Sicilia, un Montale, un quaderno di ver­si, nonché la Divina Commedia. Risale a questo periodo la sco­perta degli ermetici, gli piacque il Cecchi degli Elzeviri e ricorda la Ronda che gli pareva il frutto eccellente della più eccellente civiltà letteraria.

L’8 settembre del 1943, con il grado appena acquisito di sot­totenente, a Sacile viene catturato dai tedeschi, riuscendo a scap­pare. È uno sbandato che trova rifugio a Scandiano, in Emilia Romagna, presso una famiglia di contadini. Nell’inverno dell’an­no successivo si ammala di tisi e viene qui ricoverato. All’ospeda­le, ebbe un colpo di fortuna: il primario, un medico abbastanza colto, per salvarla dalle bombe, aveva trasferito la sua consistente biblioteca in un magazzino, di cui gli consegna le chiavi, metten­do così a disposizione i volumi che gli consentirono il suo ingresso in Europa, tra cui Proust in francese. Solo dopo la guerra legge Montaigne e Pascal, e scopre gli illuministi. Di Bufalino si può ben dire che “ha letto tutti i libri”, attingendovi un raffinatissimo patrimonio culturale che, decan­tato e reinventato in un linguaggio senza mediazioni, ha avuto una notevole ricaduta nei suoi scritti.

A guerra ultimata, nella primavera del ’46 si trasferisce in un sanatorio della Conca d’Oro, fra Monreale e Palermo, rima­nendovi fino al febbraio del’47. Com’è noto le esperienze e le emozioni qui vissute saranno rielaborate e rappresentate nel romanzo Diceria dell’untore. Definitivamente guarito, nel 1947 si laurea in Lettere all’Uni­versità di Palermo e rientra a Comiso, senza più allontanarsene, dedicandosi all’insegnamento privato. Immesso in ruolo nel 1955 è professore, dapprima, all’Istituto magistrale di Modica e poi, ininterrottamente, in quello di Vittoria.

Negli anni ’60 veniva da Co­miso a Ragusa per frequentare un Circolo del Cinema; a volte, dopo la proiezione, interveniva ai dibattiti, allora considerati “un segno di civile inquietudine culturale”. Scrittore segreto fino al 1978, è l’introduzione a un libro di vecchie fotografie su Comiso (Comiso ieri) che lo segnala all’at­tenzione di Leonardo Sciascia e di Elvira Sellerio. Sollecitato a pubblicare le sue eventuali composizioni, anche per l’insistenza di Enzo Siciliano, solo nel 1981 (già sessantunenne), egli vince la sua ritrosia, dettata da riservatezza, e si decide a estrarre dal cassetto Diceria dell’untore, la cui pubblicazione apparve come un “caso” letterario non solo per i temi trattati, ma soprattutto per lo stile iperletterario così duttile da intrecciare “retorica e pietà, artificio e pena”.

Nel 1981 pubblica la Diceria dell’untore che, riscuotendo successi di critica, vince il premio Campiello. Fu lo stesso Sciascia a parlare di lui e del libro, con un intervento che l’anticipava, in un articolo pubblicato su «L’Espresso» (1 marzo 1981), recante un titolo ammaliante Che mastro questo don Gesualdo: vi si trova una conversazione - in­tervista tra lui e lo scrittore comisano che introduce, a mo’ d’in­vestitura, nel mondo letterario.

Ricordo alcune nostre passeggiate a Ragusa all’inizio degli anni Settanta. Io allora svolgevo la mia attività lavorativa pres­so il Provveditorato agli Studi e militavo nel partito di Saragat, partecipando attivamente alla vita politica; nel corso delle no­stre conversazioni specificamente sull’opera di Serafino Amabile Guastella, mi manifestava le sue simpatie per la scelta coraggiosa di “Palazzo Barberini”, pur mantenendosi egli distante da ogni scelta ideologica.

Bufalino muore in un incidente d’auto il 14 giugno 1996.

A questo punto, il miglior modo di ricordarlo è di leggere le sue pagine in termini “di compli­cità e di memoria”, puntando l’attenzione alla sua terra d’Isola entro la dialettica dei contrari da lui fortemente avvertita.

L’opera Museo d’ombre (Palermo, Sellerio, 1982), dedicata al proprio padre e alla sua ombra, contro i so­prusi del tempo e lo scempio dell’uomo, sviluppa con forza evo­cativa gli argomenti già presenti nel volume Comiso viva (1978). Il filo conduttore resta il ricordo della realtà perduta e ritrovata in un ampio ventaglio di sentimenti, capaci di suscitare emozioni e consapevolezze. Tocca le corde del cuo­re l’introduzione dall’aria proustiana dove lo scrittore afferma di sentirsi legato alla persona del suo paese, “città teatro”, situato fra i monti Iblei e il mare, luogo di intimità sentito in una compli­cità di sangue: “La mia stupida Itaca da cui non sono partito”. Cinque le ripartizioni del libro, ciascuna delle quali è preceduta da una citazione, nonché da una premessa: “Mestieri scompar­si”; Luoghi di una volta”; “Antiche locuzioni illustrate”; “Picco­le stampe degli anni trenta”; “Visi lontani”. Sono acquarelli che mostrano la fisionomia di un’identità collettiva ovvero il “catasto affettivo” di una comunità; sono raffinate pagine che valgono per ogni paese dell’Isola e fuori, dato che ciascuna comunità ha pro­pri riti e costumi, propri luoghi e tipiche oralità. Valevole questo libro soprattutto per i giovani che appartengono a un’epoca di­stante da quella rappresentata in un tempo detto remotissimo.

Il filo conduttore va individuato sia nel ricordare che nella visione evenemenziale della storia di cui Bufalino si fa interprete con la distinzione tra storia maggiore e storia minore, mostrando di essere in linea con il nuovo indirizzo storiografico della scuola de Les Annales, affermatosi particolarmente negli anni Cinquanta e che prende il nome dalla rivista, fondata nel 1929 da March Bloch e Lucien Febvre. Richiamando la funzione della memoria, guida così il lettore a partecipare a un’esperienza coinvolgente: immettersi in frammenti riguardanti l’identità intima e colletti­va. Entro tali coordinate, egli scrive:  

 

Storia non è solo quella conservata negli annali del sangue e della forza; bensì quella legata al luogo, all’ambiente fisico e umano in cui ciascuno di noi è stato educato. Storia è il gesto con cui si in­tride il pane nella madia o si falcia il grano; storia è un nomignolo fulmineo, un proverbio cattivante, l’inflessione d’una voce, la sago­ma d’una tegola, il ritornello d’una canzone; tutto ciò, infine, che reca lo stemma del lavoro e della fantasia dell’uomo. Materia che deperisce prima d’ogni altra cosa e di cui nessuno, quasi, si cura di custodire i reperti.

 

Da qui, parafrasando Cartesio, conia il sapienziale Memini ergo sum, situandosi nel solco della letteratura memoriale. Del resto i Greci, avevano considerato Mnemòsine madre delle nove Muse come a voler dire che la creatività deriva dalla memoria. Il bisogno di salvaguardare il senso d’appartenenza dal ritmo im­pietoso del tempo fa dire allo scrittore: “Una civiltà è specialmen­te la ricchezza dei suoi mestieri”.

Di competenza erano ricche le botteghe artigiane, centri re­gali di alta cultura tecnologica; scorrono davanti agli occhi me­daglioni sul lavoro del microcosmo socio-economico e valoriale unitamente a figure e voci che offrono l’immagine della Sicilia laboriosa e fortemente produttiva nel contesto d’una forte al­leanza tra città e campagna. Si susseguono, poi, i luoghi d’una volta, quelli “che cambiano più presto d’un cuore umano”. In proposito, Dickens che egli cita riportandone un breve brano, ne “La bottega dell’antiquario”, aveva scritto:

Sono tanti i mutamenti che avvengono in pochi anni, e così svani­scono le cose, come un racconto ormai raccontato.

Gesti e mimiche, abbigliamenti e linguaggi, contegni e aned­doti di commozione o di scherzo – scrive Bufalino – caratterizza­vano i personaggi che esercitavano le loro attività in spazi chiu­si (le botteghe dove il “mastro” era considerato come un “re”) o in luoghi aperti “col consenso del sole, della pioggia, del vento”: Nelle botteghe, veri e propri regni, il sovrano era il “mastro”, cioè colui che, avendo accumulato una secolare esperienza, dan­do prova di estrema bravura, poteva trasmetterla agli apprendisti che lo consideravano, appunto, un vero e proprio re demiurgico. Come non ricordare ’U pitturi ri carretta (Il pittore di carri), de­scritto con un mirabile flash che incanta e fa volare in magiche atmosfere?

 

Reali di Francia, chi vi può scordare? All’aperto, sulle spallette dei carri, Mastro Peppino Samperi governava la vostra sorte, lavorando di spolvero e pennello sotto i nostri occhi abbagliati.

Con due assi messe in croce ci forgiammo una durlindana; in sonno colpimmo al cuore mille orche e mille dragoni, liberammo Angeliche dai lungi capelli, patimmo la frode di Gano, morimmo circondati a Roncisvalle.

Al risveglio, dietro l’uscio, l’Ippogrifo non c’era più.

 

La scrittura è magica, suscita sentimenti nel gioco di strania­menti spazio-temporali e Bufalino si rattrista quando sperimenta il sentimento della perdita di luoghi e di affetti: “E la morte di un luogo è triste quanto la morte di un uomo”. Sicché, la malinco­nia lo induce anche a ripescare locuzioni adottate nel linguaggio scurrile e cameratesco, aneddoti, profili umani e abitudini. A re­stituire loro la vita è il potere taumaturgico della scrittura. Inesauribile, pertanto, il museo d’ombre che, nelle profondità dell’animo, ha a che fare con l’occhio e con il cuore dell’uomo, mossi dal desiderio di ridare esistenza a tutto quello che irrimedia­bilmente è perduto (il “Riessere”, sogno da Bufalino accarezzato). L’inventario della tradizione fa del libro un dizionario fantastico del paese: un libro così privato e insieme così pubblico che fa rivivere il passato d’una Sicilia incantata.

In nome di “Eros” la vicenda umana si svolge quasi in un luogo edenico; ma quando “Thanatos” prende il sopravvento, la vita rivela sofferenze e si manifesta come una inarrestabile corsa verso il nulla. Eros e Thanatos, dunque: voci consonanti e dissonanti entro le quali si scandiscono i ritmi vitali, e che fanno pensare alla “luce” e al “lutto”. Antinomia, questa, da cui prende titolo il volume La luce e il lutto (Sellerio, Palermo, 1988), il cui scopo è di mostrare i nuclei costitutivi dell’identità della Sicilia in uno con le qualità positive e negative del sici­liano. Muovendo da una riflessione sulla storia dell’Isola fatta di impronte culturali contrastanti, che vanno dal razionalismo europeo al magismo africano, egli inizia un singolare viaggio in­vitando il lettore a parteciparvi:

 

Salite a bordo di questa area triangolare di sasso che galleggia sulle onde dei millenni. È scampata a tante tempeste, sopravviverà ai missili… E mettetevi in tasca un vocabolario greco: potreste incon­trare, emersa dalle acque e vogliosa di scambiare due chiacchiere, Afrodite Anadiomene…

 

Non è l’indagine storiografica a interessarlo quanto le sensa­zioni che egli intende suscitare. L’invito è diretto alla conoscenza della Sicilia e si coglie subito una chiave di lettura composita e diversificata dell’Isola. Vi è: la Sicilia verde del carrubo, quella bianca delle saline, quella gialla dello zolfo, quella bionda del miele, quella purpurea della lava.

La consapevolezza dell’“Anagrafe difficile” del “Siciliano Asso­luto”, il cui identikit è fissato in quattordici punti (dal pessimismo della volontà al razionalismo sofistico; dal sentimento del teatro allo spirito mistificatorio; dall’estremismo delle parole all’iperbole dei gesti…), si accompagna alle qualità rinvenibili nei tanti volti della Sicilia che si sono configurati nel corso delle varie dominazioni.

Tante Sicilie, perché? Perché la Sicilia ha avuto la sorte di trovarsi a far da cerniera nei secoli fra la grande cultura occidentale e le ten­tazioni del deserto e del sole, tra la ragione e la magia, le temperie del sentimento e le canicole della passione.

Comprendere la Sicilia per un siciliano equivale a capire se stesso:

 

Ogni siciliano è, di fatti, una irripetibile ambiguità psicologica e morale. Così come l’isola tutta è una mischia di lutto e di luce. Dove è più nero il lutto, ivi è più flagrante la luce, e fa sembrare incredibile, inaccettabile la morte. Altrove la morte può forse giu­stificarsi come l’esito naturale d’ogni processo biologico; qui appare uno scandalo, un’invidia degli dei.

 

Se una fisionomia dell’isola si mostra energica, attiva, estro­versa che s’allontana sempre più dalla tradizione, un’altra si pre­senta pressoché immobile nell’atavica condizione dell’isolamen­to. A volte la visione è lirica. Ad esempio, Bufalino richiama la bellezza del cielo e del mare; ma nell’insieme l’immagine della terra d’isola è sofferta, tormentata; si può cogliere il senso dell’as­soluto degrado nel ritratto di Gela: città dalle diverse sfaccetta­ture in cui si trovano “un inferno, un purgatorio, un minuscolo paradiso assediato”. La descrizione è cruda, ma l’entusiasmo ri­affiora con la contemplazione del paesaggio marino con la luce d’uno smeraldo.

Le scene si susseguono nell’estetica e nel dramma che sono due componenti dell’animo isolano, il quale, invaso da una dimen­sione teatrale del vivere, ha un senso immaginifico del vivere al­leato con quello scandaloso della morte: Così continuiamo ad opporre alle abbaglianti vociferazioni del sole la certezza immemorabile che su ogni cosa trionfa il niente.

   Il nostro scrittore ritrova la semiologia del lutto nei riti della settimana santa in cui è dominante il senso del doloroso dell’in­tera comunità che solidarizza con “la donna orbata in cerca della sua creatura perduta”. Ma c’è anche il rigoglioso risveglio della natura da Bufalino associato al mito greco del ratto e ritorno di Persefone. Il lettore vede filtrare la luce nella realtà mitopoietica dell’Isola: nell’arte dei laboriosi artigiani, in particolare.

 

Dai ceramisti di Santo Stefano di Camastra e di Caltagirone, che nel solco del passato camminano con passo sicuro, ai segantini di Comiso, abili a trattare il marmo con virtuosità di scultori; dai corallari di Trapani alle tessitrici e merlettaie ericine; dai falegnami bagherioti di bambole e pupi ai fabbri giardinesi di ferro battu­to, ai carradori palermitani e catanesi… dovunque telaio e pialla, scalpello e tornio, sotto l’impulso di un braccio femminile o ma­schile, fanno ancora udire la loro musica propiziatoria, parlano un linguaggio di saviezza e salute in un mondo e in un tempo che per molti versi sembrano averlo disimparato.

 

Affiora poi la peculiarità della “Città teatro” che amalgama scena e mimo: la scenografia del barocco, entro la conformazione delle piazze e dei balconi, si sintonizza infatti con i caratteri va­riegati degli abitanti, pronti a manifestarsi nella liturgia del sacro e del profano.

Il tour d’una Sicilia sconosciuta toglie il fiato e, sprofondando l’animo nello stupore, coniuga immaginazione e realtà. Affascina l’invito a visitare “Ibla” dal fiero carnale barocco, che fa leva sull’intelligenza del turista: Fatto sta che ci vuole una certa qualità d’anima, il gusto per i tufi silenziosi e ardenti, i vicoli ciechi, le giravolte inutili, le persiane sigillate su uno sguardo nero che spia; ma anche si pretende la pas­sione per le macchinazioni architettoniche, dove la foga delle forme in volo nasconde fino all’ultimo il colpo di scena della prospettiva bugiarda.

L’acme del percorso è a Siracusa: la città classica, dove è pos­sibile assistere alle rappresentazioni delle tragedie di Euripide, di Eschilo, di Sofocle in un’atmosfera di catarsi che fa avvertire l’universalità del mito.

Viaggio con il padre sul carretto di notte è, infine, un racconto evocativo di memorie dell’infanzia nello spazio magico del ter­ritorio ibleo; l’altra narrazione, che si intitola Intervista a mia madre in cui agiscono suggestioni pirandelliane, liberando lo sguardo in richiami d’assenze e di presenze, va vista come il punto d’arrivo, dolce e malinconico, del suo iti­nerario.

Quale in sintesi la Sicilia di Bufalino?

Evidentemente la nostra ragione non è quella di Cartesio, ma quel­la di Gorgia, di Empedocle, di Pirandello. Sempre in bilico fra mito e sofisma, tra calcolo e demenza; sempre pronta a ribaltarsi nel suo contrario, allo stesso modo di un’immagine che si rifletta rovesciata nell’ironia di uno specchio. Ogni siciliano è di fatti una irripetibile ambi­guità psicologia e morale: Così come l’isola tutta è una mischia di lutto e di luce. La visione della Sicilia, che è ampia e intrisa di lacerazioni, si svolge, in sostanza, in un susseguirsi di immagini, allucinanti a volte, e di leggende. E il libro scorre nel sangue di una realtà luminosa e mitica quando, ad esempio, descrive le credenze dei corollari di Trapani o i ritratti di paesi avvolti nella metafisica es­senza di un tempo senza tempo, intreccio di plurisecolari civiltà, contraddizioni e atavici aneliti.

Vorrei concludere accennando all’animo sociale di Bufalino. Generalmente visto come “appartato” e “reticente” sui problemi inquietanti della Sicilia, ha energicamente ricordato la strage di Capaci, manifestando una sorta di sdegno in versi. Fu questo il suo sdegno contro la mafia, assegnando alla scuola il compito dell’alfabetizzazione come emancipazione e liberazione delle coscienze dalle astuzie della storia: le mafie si sconfiggono con un esercito di insegnanti, egli ha più volte affermato e scritto. Tutto questo  si evidenzia dalle belle pagine dell’opera “Guerrin Meschino” (pubblicata la prima volta nel 1991 per una ristretta cerchia di lettori e ristampata da Bompiani nel 1993), che lo mostrano severo giudice del sangue di cui si macchia l’agire mafioso. È un vecchio puparo a narrare le avventure di questo mitico personaggio la cui vicenda si svolge nella magia d’una ricerca esistenziale incessante. A un certo momento, fa però irruzione una Sicilia martoriata dalle stragi di mafia, dove “paladini in abiti borghesi” (il riferimento è a Falcone e a Borsellino) si immolano come “Cristi”, trucidati senza pietà. Allora il puparo, preso da stizza rabbiosa, rinuncia a recitare, mettendo il cartello “chiuso per lutto”.

 

Basta così, giù il sipario, non me la sento stasera.

Si chiude. Vi rimborso il biglietto.

Lasciamo Guerrino per un bel po’

a sbrogliarsela con le tenebre

sul ciglione dell’abisso.

Gli farà bene vegliare anche lui

in questa Notte d’Ulivi della Sicilia…

Sicilia santa, Sicilia carogna…

Sicilia giuda, Sicilia Cristo…

battuta, sputata, inchiodata

palme e piedi a un muro dell’Ucciardone.

 

Federico Guastella

 

(credits ph cortesia "Malgrado Tutto")

 

Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

Paul Valéry

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