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  • Autore: Carlo Ruta
  • Editore: Edizioni di storia e studi sociali
  • Titolo: Teoderico e il suo sogno

Teoderico. Il re barbaro che immaginò l’Italia (presentazione a Modica, 3 agosto 2019)

Modica, 5 agosto 2019 – È stato presentato a Modica Alta, nel chiostro della medievale Chiesa Santa Maria del Gesù, il volume del saggista e storico dei mediterranei Carlo Ruta, Teoderico. Il re barbaro che immaginò l'Italia (Edizioni di Storia e Studi Sociali).

Dopo i saluti di Francesco Lucifora e il messaggio del prof. Giovanni Distefano (professore all'Università della Calabria e a Roma 2 Tor Vergata) che già aveva presentato il libro a Ragusa nel gennaio 2019, le relazioni di Salvo Micciché (saggista e direttore editoriale di Ondaiblea) e Daniele Pavone (storico del territorio) hanno preceduto l'esposizione dell'Autore che ha illustrato il volume mettendo in luce le tante sfaccettature della complessa personalità del re goto Teoderico (altrimenti noto come Teodorico), che non fu poi così "barbaro" come risulta da una non attenta lettura della storiografia, ma un illuminato e lungimirante monarca che poi ebbe solo la sfortuna di essere coinvolto nella fine tragica di uno dei suoi principali consiglieri, Severino Boezio, che, assieme a Cassiodoro ispirò una concreta politica di convivenza (oggi diremmo integrazione) tra romani e goti. Filosofia, politica, storia e perfino numismatica sono le chiavi di lettura della vicenda di Teoderico, come ha sottolineato l'autore e come hanno anticipato i relatori (Salvo Micciché ha posto l'accento sul dibattito filosofico e sul recupero dei classici, Daniele Pavone ha ben illustrato le tracce e le conferme che si possono leggere analizzando medaglie e monete coniate tra V e VI secolo, in cui si evince la piena coscienza di un unico Impero e un unico Imperatore con cui i re cosiddetti "barbarici" d'Europa, pur riconoscendone la supremazia, si confrontavano).

Proponiamo ai lettori gli spunti di discussione, che possono servire come traccia per una recensione del volume, la cui lettura, consigliatissima, offre poi altri interessanti filoni di indagine.

s. m.

 

La relazione di Salvo Micciché

Il volume è intitolato Teoderico - Il re barbaro che immaginò l’Italia. Ne è autore Carlo Ruta, storico, saggista e attento storico delle civilizzazioni dei Mediterranei. Il volume è edito da ‘Edizioni di Storia e studi sociali’, di Giovanna Corradini.

«Questo libro non è una biografia – ha giustamente esordito il prof. Giovanni Distefano, presentando il volume alla Libreria Paolino (Ragusa) a gennaio del 2019 –, è piuttosto l’analisi precisa e puntuale della figura di un re illuminato che ha immaginato una nazione, l’Italia». 

Chi era, dunque, Teoderico I re dei Goti? Non certo un barbaro, come comunemente si è scritto; egli era stato educato, piuttosto, secondo i costumi romani a Bisanzio, altro nome di quella Costantinopoli che dopo il 476, con l’abdicazione di Romolo Augustolo, ultimo imperatore del basso Impero Romano d’Occidente, divenne la capitale di un unico impero. Nato in Pannonia nel 454 d.C. circa (altre fonti riportano meno correttamente una data prossima al 451), figlio di Teodemiro della stirpe degli Amali, visse fino al 526. Il suo nome in lingua norrena era Þiðrekr af Bern, mentre in tedesco era Dietrich von Bern, dove Bern sta per il nome di Verona nel tedesco altomedioevale. Dal 462 al 472 (poco più che bambino fino a 18 anni) visse a Costantinopoli, come ostaggio di un trattato federativo tra gli Ostrogoti e i Bizantini dell’imperatore Leone I: non si pensi, però, ad una prigionia, quanto piuttosto ad un’occasione per il giovane goto di formarsi e studiare con i costumi ellenici e romani, il diritto e la cultura classica; venne non a torto definito puerulus elegans, ragazzo raffinato e diligente. Per legame e gratitudine, nel 473 Teoderico combatté per l’Impero in una battaglia contro i Sarmati. Poco dopo succedette al padre Teodemiro e traferì il suo popolo dalla Pannonia alla Mesia – ovvero, in termini di geografia moderna, dai luoghi che insistono a est del Triveneto più verso sud oriente, all’incirca nell’odierna Bulgaria e la zona dei Balcani –. L’Imperatore Zenone gli fu grato per l’aiuto prestato contro il rivale Basilio e lo nominò patricius e magister utriusque militiae. Questo gli permise di stanziarsi legittimamente in Italia, dopo aver battuto l’ostrogoto Odoacre, prima sull’Isonzo e a Verona, nel 489, poi sull’Adda, nel 490. Dopo assedio pluriennale Teoderico prese Ravenna ed eliminò Odoacre e la sua famiglia. Dopo la disfatta dello sfortunato Romolo Augusto, infatti, si pensava che la «Repubblica» (la cosa pubblica) potesse essere affidata proprio alle cure del germanico Odoacre, cui però si chiedeva che fosse conferito il titolo di Patrizio e non di Imperatore. Odoacre non si mostrò all’altezza di queste speranze e contro di lui cresceva il malcontento; presto quindi tra lui e Teoderico fu inevitabile lo scontro, anche per la maggior fedeltà del goto ai Bizantini. Siamo nel 493 d.C. Sono passati appena 17 anni dall’abdicazione dell’ultimo imperatore d’Occidente e dalla conseguente decisione del senato romano di ritenere un solo monarca, l’imperatore d’Oriente Zenone, in grado di difendere le due parti dell’Impero. 

L’esercito riconfermò re Teoderico, ma questo non poteva bastargli, infatti egli chiese anche il crisma ufficiale a Bisanzio. Zenone non fu d’accordo a concedere questo riconoscimento, che gli sembrava ancora prematuro, ma il successore Anastasio I (che regnò dal 497 al 498) accolse la richiesta di Teoderico che poté così iniziare l’attuazione del suo progetto di governo dei Romani e dei Goti insieme.

Il volume tratta in particolar modo del rapporto del re Teoderico con due importanti figure di collaboratori e intellettuali che lo assecondarono, soprattutto in relazione al non facile incontro tra i due popoli, i goti e i romani, e le loro culture, quella romana e quella germanica, quella cristiana e quella ariana. Le due figure di spicco tra i collaboratori sono Boezio e Cassiodoro che insieme a Festo, Simmaco e Liberio furono suoi consiglieri e ministri. 

Flavio Magno Aurelio, che a partire da Paolo Diacono, venne indicato come Cassiodoro, visse dal 490 al 583. Era nato a Squillace, in Calabria, nel cui Vivarium morì. La sua famiglia era originaria dalla Siria. Ben presto, dato il suo acume, scalò la carriera amministrativa sia con Teoderico sia con i successori sino a Vitige. Aveva in comune con il re dei Goti l’ambizioso obiettivo di amalgamare usi e costumi del popolo romano con le tradizioni del popolo goto. Dopo la morte di Teoderico, nel 526, Cassiodoro comprende però che non era così facile come credevano, il re e lui, nulla era scontato, anche se il processo di fusione era decisamente iniziato. Nel 540 decise di abbandonare la carriera amministrativa e fondò un chiostro, il Vivarium, in cui si ritirò insieme ad alcuni monaci con cui egli condivise attività culturali, in particolare la traduzione di opere classiche greche e latine, cristiane e pagane. Preghiera ed otium li aiutavano in questa pregevole opera. Tra i suoi scritti ricordiamo le Variae, dodici libri di atti ufficiali, raccolta in cui sono incluse interessanti digressioni di carattere storico, scientifico, etico e religioso. Poi una Chronica con l’ambizioso progetto di raccontare la storia del Mondo dalla Creazione al 519; il De origine actibusque Getarum era invece, in dodici libri, un’opera storiografica sui Goti, storia degli usi e costumi che ci è giunta solo attraverso un compendio scritto da Jordanes, uno storico bizantino di lingua latina del VI secolo. Scrisse anche un De anima, pensato principalmente per illustrare l’origine e la spiritualità dell’anima, affrontando anche tematiche fisiologiche, tra cui gli interrogativi su dove fosse collocata, se nel capo o altrove, e come essa si propagasse in tutto il corpo. Citiamo poi, tra gli altri scritti la Historia ecclesiastica tripartita che per tutto il Medioevo fu uno dei principali manuali di teologia e storia della chiesa, un De orthographia; i due libri delle Institutiones divinarum et humanarum rerum, con l’ambizioso progetto di proporre un’opera enciclopedica di teologia e arti liberali, un po’ il suo manifesto della cultura ecclesiastica del tempo. Il quinto capitolo delle Institutiones è dedicato alla musica: Istituzioni di musica si intitola, e tratta delle teorie musicali a partire dagli alessandrini sino al suo tempo: un capitolo che fu uno dei principali manuali per i musici del Medioevo.

Da sottolineare, in particolare, l’esperienza di Cassiodoro nel Vivarium, che va letta in parallelo con quella di San Benedetto da Norcia, fondatore del monachesimo benedettino. Benedetto, fratello di Santa Scolastica era nato a Norcia nel 480 circa e morì a Montecassino nel 547, una vita parallela a quella di Cassiodoro. Pochi anni prima, nel monte di Montecassino (dopo una prima esperienza a Subiaco), Benedetto aveva composto la sua Regola verso il 540. Non si può affermare una ispirazione diretta dalla speculazione di Cassiodoro, ma certo Benedetto prese spunto da queste idee e da regole precedenti, come quelle di san Giovanni Cassiano e san Basilio, ma anche quelle di san Pacomio, san Cesario, e il cosiddetto Anonimo della Regula Magistri con il quale ebbe stretti rapporti proprio nel periodo della stesura della regola benedettina. Benedetto insiste sulla buona disciplina in relazione al rispetto per la personalità umana e le capacità individuali, vuole fondare una scuola del servizio del Signore, «in cui speriamo di non ordinare nulla di duro e di rigoroso». E certo questo intento era anche quello di Cassiodoro. Nel V-VI secolo era questa l’idea cardine della contemplazione e della speculazione intellettuale e teologica; il monastero e il Vivarium, nella loro stabilitas loci, rappresentavano l’ambiente ideale, consentendo la traduzione, la trascrizione di manoscritti e libri, pronti per tramandare cultura al Mondo. Successivamente, e soprattutto nel XII secolo, 5-6 secoli di esperienza porteranno grandi personalità della chiesa ad aprirsi al Mondo anche in altro modo: abbandonare la stabilitas loci e invadere il mondo con la predicazione. Sarà il tempo degli ordini mendicanti, di Domenico e Francesco, i santi fondatori dei predicatori e dei minori, che come i benedettini e i basiliani attuano, con diversi carismi, le grandi idee di Cassiodoro, contemplando ed attuando le linee di pensiero dei Padri della Chiesa (niceni, cappadoci, antiocheni, orientali e occidentali, tra cui Boezio). Diversità di luoghi ma anche identità di intenti. Il Vivarium non era solo un “eldorado” per amanuensi e intellettuali ma, come Montecassino, sede fondante del monachesimo del VI secolo, come si può affermare rileggendo, tra l’altro, Salvatore Pricoco (Università di Catania) nel saggio San Benedetto e Cassiodoro, in «Vivarium Scyllacense, n.1/1990, pp. 21-28): «Come grande organizzatore di vita monastica e creatore di nuovi modelli culturali e religiosi, Cassiodoro sta, al pari di Benedetto, alle soglie della grande civiltà monastica dell’Occidente europeo. Aver fatto di Vivario un’istituzione di natura e finalità unicamente intellettuali è la conseguenza di due errori storiografici ricorrenti nelle indagini sulla cultura e la prassi scolastica della tarda antichità […] Anche il Vivario, in definitiva, segna un capitolo importante nella storia del primo monachesimo italiano e anche Cassiodoro è da collocare, con San Benedetto, tra i suoi grandi fondatori». «L’esperienza quarantennale di Vivarium fornì – scrive, dal canto suo, Carlo Ruta – al movimento benedettino il paradigma consolidato dello scriptorium».

Anicio Manlio Torquato Severino Boezio nacque a Roma nel 480 e morì a Pavia nel 526, lo stesso anno della morte di Teoderico. A soli 7 anni, all’incirca nel 487, perse il padre e fu sostenuto negli studi da Quinto Aurelio Memmo Simmaco. A Roma fu educato secondo modelli retorici e filosofici della classicità, completò poi i suoi studi ad Atene e infine ricoprì importanti cariche proprio alla corte di Teoderico che lo nominò console nel 510 e poi maestro di palazzo nel 523. Egli fu l’altro pilastro che ispirò al re goto l’integrazione tra la cultura romana e le tradizioni gotiche, tra romanesimo e germanismo. Purtroppo, com’è noto e come si evince anche dalla lettura del volume di Ruta, egli fu presto accusato di tradimento, per colpa soprattutto di un controverso personaggio, il referendarius Cipriano che accusava Boezio di connivenza con il senatore Albino, a sua volta accusato di complicità con i Bizantini contro Teoderico, e di una corrente del senato avversa al re che influenzò negativamente il giudizio di Teoderico che probabilmente pur non condividendo la di lui condanna, nulla però fece per evitarla. Una certa tradizione cattolica, a partire probabilmente dall’Anonimo Valesiano, attribuisce interamente al re le colpe per l’ingiusta detenzione e morte di Boezio, ma si tratta certo di conclusioni semplicistiche, e nel libro si analizzano altri fattori determinanti, con atti e fatti da attribuire a correnti senatoriali cui il filosofo non era affatto ben visto. A ragione degli importanti incarichi che Boezio aveva nell’amministrazione, fu istituito un processo con un tribunale composto da cinque senatori estratti a sorte, ma le premesse non erano buone: l’autodifesa di Boezio si basava sulla difesa di Albino, contro il quale si produssero testimonianze false, quelle di Opilione e Gaudenzio, personaggi loschi più volte banditi dal regno e quella di un certo Basilio, pare corrotto con denaro. Si volle vedere artatamente nella difesa di Boezio la prova della complicità con Albino e Boezio venne imprigionato nel 525 e fu messo a morte nel 526, non prima di aver scritto la sua principale opera, il De consolatione philosophiae. Come Cassiodoro, anche il programma di Boezio passava per la traduzione di opere classiche, greche e romane, di filosofia, pensiero, scienza, a partire da Platone ed Aristotele, i due grandi maestri del pensiero; egli credeva di poter conciliare e concordare aristotelismo e neoplatonismo, in particolare riferendosi al nuovo dibattito attorno a Plotino e Proclo. Boezio affermava che avrebbe tradotto il più possibile dei due maestri greci, ma in effetti poté tradurre solo parte dell’ampio Organon aristotelico (Topica, Categorie e De Intepretatione, le fonti dei pensatori della Scolastica). Nel frattempo redasse diversi Commentari alle opere dello stagirita, ma il suo indubbio merito è il commento all’Isagoge di Porfirio con cui, tra l’altro, si pongono le basi per quella dibattutissima questione che alimentò il dibattito nel Medioevo e fino a tempi più recenti, il problema degli Universali già posto appunto da Porfirio, se cioè la natura dei termini universali di genere e specie – si pensi ad es. ai termini «animale» e «uomo» – fosse da individuare ante rem, realtà ontologica già nella mente di Dio, come sostenevano i realisti come Guglielmo di Champeaux o in re, nelle cose stesse, o ancora post rem, come sostenevano i nominalisti per cui gli universali, come scriveva Roscellino, sono semplicemente flatus vocis. Questa questione ontologica andò ben oltre il VI secolo, arrivando ad es. sino a Guglielmo da Ockham e soprattutto fu pressante con Alberto Magno e il suo discepolo, san Tommaso d’Aquino che propendevano per una sintesi, secondo cui gli Universali sono contemporaneamente ante rem, in re e post rem: ante rem in quanto certamente nella mente divina ma anche  in re perché con la Creazione Dio li pone nelle cose come loro essenza, e sono infine post rem poiché con la comprensione e il linguaggio l’uomo li può estrarre, capire, narrare a posteriori. Non era questa una questione di second’ordine ma un tema fondativo della fisica, della metafisica, della teologia, che anche grazie a Boezio – e prima di lui a Porfirio – si pose prepotentemente al centro del dibattito filosofico tra Tardoantico e Medioevo.

Ma Boezio si occupa anche di altri ambiti dello scibile umano: di teologia per esempio, per cui scrive cinque Opuscula theologica e soprattutto di musica, scrivendo il De institutione musicae in cinque libri, tra il 500 e il 507, anche questa, come quella di Cassiodoro, opera importante per la musica medievale e i suoi cultori che sul suo esempio trattavano la musica come mundana (l’armonia delle sfere celesti), humana (armonia tra corpo e spirito nell’uomo) e infine instrumentalis (quella che oggi è prevalente, da eseguire con gli strumenti). Compone anche opere di aritmetica, nello stile normale per uno studioso del Tardoantico e dell’incipiente Medioevo, che si formava sugli studi del Trivium e del Quadrivium; compone anche un vocabolario filosofico latino e scrive abbondantemente di retorica e dialettica. Ma ovviamente il suo merito principale è quello di aver scritto il De consolatione da cui, tra l’altro, conosciamo importanti dettagli della sua tragedia che lo portò alla morte. Sono cinque libri in prosa e in versi con procedimenti allegorici e retorici ispirati a Varrone e Menippo. La Filosofia è una nobildonna che appare allo scrittore per consolarlo e dimostragli che i capovolgimenti della sorte non mutano la felicità, che consiste nel possesso di un bene imperituro, un bene la cui sostanza è l’universale provvidenza che governa tutte le cose ma non pregiudica la libertà dell’uomo. Boezio in questo senso si schiera nella disputa sugli Universali manifestando un realismo moderato. Invece, parlando di teologia e metafisica, egli segue decisamente un’impostazione platonica: la creazione a suo avviso segue un modello di archetipi, che poi sono le idee divine. 

Per completezza di esposizione, nell’economia interpretativa del volume di Ruta è interessante porre l’attenzione anche sul monaco Fulgenzio, santo e scrittore latino nato in Tunisia all’incirca nel 465 e morto a Ruspe nel 533. A Ruspe, in Africa, fu vescovo, dopo la sua predicazione, come monaco, in Sicilia e a Roma. Trasamondo, re ariano dei Vandali lo perseguitava e due volte lo mandò in esilio (una volta in Sardegna). La sua opera ispirò il monachesimo basiliano, benedettino e sicuramente anche quello di Vivarium. Egli scrisse alcuni trattati contro l’eresia ariana: Contra Arianos e Contra Fabianum e soprattutto un diretto Ad Thrasamundum regem, poi un De Trinitate. Si dichiarava fedele discepolo e interprete di Agostino nel De veritate praedestinationes et gratiae Dei e citando Agostino egli insisteva su una strenua ed intransigente difesa della dottrina della predestinazione dell’uomo alla salvezza o alla dannazione.

Ci siamo dilungati tanto su Cassiodoro e Boezio, e incidentalmente su Benedetto da Norcia e Fulgenzio, perché riteniamo la conoscenza delle loro personalità e del loro pensiero e la loro opera, molto importante, al pari di quella di altri pensatori, scienziati e filosofi alla corte di Ravenna – si pensi al vescovo Magno Felice Ennodio e al poeta e prosatore Aratore –; i loro scritti rappresentano spunti determinanti per la comprensione della personalità di Teoderico, un re – lo ribadiamo – goto ma formatosi anche a Costantinopoli secondo modelli prettamente ellenistici e romani, ariano sì ma aperto al cattolicesimo, almeno fin quasi alla fine della sua esistenza. L’etichetta di ‘barbaro’, tanto cara a romani e greci (che così chiamavano gli stranieri: quelli che non sanno «parlare greco»), mal si addice dunque a Teoderico, che fu educato romanamente con studi ellenistici e si circondò proprio di quegli intellettuali romani e volle essere arbitro di mondi distanti, senza minimamente voler distruggere le loro culture, piuttosto integrarle, fonderle nel suo ambizioso progetto di convivenza etnica in uno stato chiuso, sì, ma anche plurale, «con rigidi protocolli identitari», come giustamente scrive Carlo Ruta.

Non fu tutto facile, specialmente per quanto riguarda i rapporti sempre tormentati tra ariani e cristiani cattolici. Soprattutto difficile fu scontrarsi con l’amico, panegirista e consigliere Boezio, che cadde in disgrazia e fu messo a morte nel 526, lo stesso anno in cui, morendo, si spensero anche le ambizioni di Teoderico. Nel 526 – scrive Ruta – «il regno goto precipitava in una profonda instabilità ed infine, per iniziativa di Costantinopoli, in uno stato di guerra che in un paio di decenni ne avrebbe determinato la fine».

I Bizantini, riprendendo possesso di gran parte dell’Italia – in altra parte della penisola dal 568 con Alboino avrebbero governato, con altre mire, i Longobardi –, non seppero imitare la forza unificante del re goto e i loro possedimenti erano fragili e disgregati. Un secolo dopo si avranno le prime incursioni islamiche – preludio dell’occupazione forse non metodica ma certo pressante del IX secolo –: occupazioni sporadiche che comunque lasciavano intendere che la Sicilia e l’Italia sarebbero state pervase da continue dominazioni, frammentate, dal destino incerto. Tutto il contrario del sogno unificatore di Teoderico. E a proposito del suo ambizioso sogno – scrive Ruta – a un certo punto «Si apriva il serrato confronto con la civilitas latina, che passava appunto per la tutela del patrimonio architettonico e la cura delle risorse materiali dei territori oltre che, ovviamente, per un rilancio caratterizzato ed emblematico del diritto romano. Tra la fine del V secolo e gli esordi del successivo, s’imponeva un modello originale di Stato –continua l’Autore–, che raccoglieva suggestioni profonde perfino dal pensiero antico mentre lasciava baluginare, per forza di cose, un mondo differente per tanti versi indefinibile». Il suo modello ambiva anche ad una convergenza con i re di altri popoli, in particolare Franchi, Burgundi, Visigoti; da numerose lettere inviate al franco Clodoveo, al visigoto Alarico, al burgundo Gondebaudo, con la mediazione intellettuale di Cassiodoro – nota Carlo Ruta – «veniva suggerita con insistenza la moderazione e la composizione pacifica delle controversie. Non doveva mancare comunque l’intento strategico di costituire un fronte unitario e identitario che fosse in grado di scoraggiare eventuali politiche espansive di Costantinopoli». Era, il suo, quello che si può definire un «rispetto a distanza» dal centro di potere bizantino, cui si sentiva legato e rappresentante quasi al pari dell’Imperatore. Teoderico ammirava il diritto dei Romani e suggeriva agli altri regnanti una collaborazione non scissa da una rimarcata esigenza di autonomia. A suo avviso l’amalgama era possibile attorno al diritto romano: «Teoderico –scrive l’Autore – poneva l’elaborazione giuridica romana, che nell’Hispania visigota, nello Stato dei Franchi e nel mondo burgundo, pur già presente in varia misura, doveva confrontarsi con gli usi della tradizione etnica, che trovavano posto, appunto, anche nelle codificazioni». Cassiodoro ci tramanda che in una lettera del 508, il re goto invitava gli abitanti della Provenza, integrati nel regno, a «fuoriuscire dai costumi originari per sottoporsi al diritto romano», che egli presentava come «aiuto dei popoli, freno per i potenti e il conforto più sicuro della vita umana».

Nel volume si trattano vari aspetti di questa complessa personalità, non facile da ricondurre a semplice sintesi. Teoderico il costruttore – fu definito infatti restaurator civitatum –, che (ri-)costruisce e restaura l’architettura delle città (a Roma, a Verona, a Ravenna) e Teoderico il fortificatore, che fortifica i confini entro i quali Romani e Goti dovevano vivere in pace e sicurezza; Teoderico diplomatico in cerca di alleanze con burgundi, vandali, eruli, turingi e visigoti, e che ambisce ad armonizzare le illuminate dottrine del diritto romano – che da lì a poco avrà il suo momento più alto con le Pandette di Giustiniano – con gli usi e costumi germanici, barbari, dal punto di vista romano e bizantino, ma sempre più civilizzati. 

Teoderico un grande re ariano, il cui progetto però cominciava a vacillare forse anche per le trame, le ambizioni e i progetti dei Bizantini, che con Giustino I (imperatore dal 518) nel 523 mise al bando da tutto l’Impero l’arianesimo come eresia. Stretto tra la questione religiosa e le pressioni del Senato, a questo punto Teoderico dovette cambiare idea su alcuni punti del rapporto con il cattolicesimo, che pure si ostinava a difendere, ed accusò persino il papa Giovanni I di connivenza con Costantinopoli e lo costrinse a recarsi là per chiedere la riammissione degli ariani nella chiesa e al ritorno lo mise a morte e a sua volta ordinò l’espulsione dei cattolici; e in questa confusa fase si deteriorarono anche i suoi rapporti con il senato, che nel frattempo decretava, in modo subdolo e antigiuridico, la tragica fine di Boezio; il re mise a morte alcuni senatori, tra cui suoi stessi collaboratori: Albino e Simmaco, per esempio. Ma non gli restava molto da vivere: nel 526 furono messi a morte Boezio e il papa Giovanni I, oltre ai senatori, ma anche la sua vita si è spenta quasi nello stesso momento, ponendo fine al suo ambizioso progetto che «immaginava l’Italia», come giustamente scrive l’Autore.

Salvo Micciché

Torna a leggere l'articolo in questi giorni: in questa sezione sarà inserita parte della relazione di Daniele Pavone.

«Con grande dispiacere sono impossibilitato ad essere oggi presente a Modica per la presentazione del volume di Carlo (Ruta).
Ho studiato il testo del volume su "Teodorico" di Carlo Ruta che con intelligente raffinatezza ha reinterpretato il ruolo di Teodorico nel panorama della storia dell'Europa; l'ho presentato a Ragusa, a gennaio.
Teodorico dopo questo importante studio di Carlo Ruta acquista una dimensione nuova, ben al di là dei soliti luoghi comuni.Il Regato dal 493 al 526 inaugura un sistema politico-sociale dove goti e romani, ariani e cristiani, seppur in instabile equilibrio, hanno interagito.
Carlo Ruta ha il merito di avere riscoperto la formazione classica, costantinopoliana, di Teodorico alla quale certo non è estraneo il suo atteggiamento verso l'istituto del vetusto "Senato" romano e le aperture nei confronti di filosofi e letterati come Boezio e Cassiodoro o di uomini del cristianesimo come Benedetto da Norcia e Fulgenzio.
Carlo Ruta, tuttavia, non manca di percorrere anche gli aspetti più tortuosi del regno di Teodorico.
Dunque....una nuova ed intrigante esegesi che l'Autore ha voluto regalare ai suoi attenti ed affezionati lettori.
Un saluto a tutti i colleghi presenti ed al pubblico.

Giovanni Distefano

 

Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

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