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Il 19 gennaio 1915 l’Endurance, capolavoro dei maestri d’ascia norvegesi, affonda nelle acque dell’Antartide

 

Storie di Navi, rubrica a cura di  Giovannella Galliano

 

La rubrica, “Storie di navi” questa volta ci porta molto lontano nel tempo,  il 19 gennaio 1915, quando la nave Endurancefallì l’Imperiale Spedizione Transantartica mentre viaggiava nel mare di Weddel a sole 80 miglia dall’Antartide.

Enormi lastre di pack, infatti, la imprigionarono costringendo l’intero equipaggio ad abbandonare la nave salvando il salvabile. Ce la racconta uno scrittore ragusano, Vincenzo La Monica, conosciuto come Responsabile Immigrazione della Caritas di Ragusa che in un suo blog ha raccolto varie fonti, scritte e filmate, per creare di suo pugno un racconto entusiasmante per gli appassionati del genere. Ne riportiamo qui una riduzione ad opera dello stesso Vincenzo La Monica.

A questo avvenimento fu dedicata anche una puntata di Superquark e le foto qui pubblicate sono del regista free lance Frank Hurley, su carta Kodak.

 

La Storia

Thoralf Sørlle era il direttore della stazione baleniera di Stromness, nella Georgia Australe. Un uomo avvezzo alla macellazione delle balene, al gelo mischiato di fumo e di grasso, ai tetri fusti in metallo per la conservazione dell’olio, alle maniere dei marinai. La persona di fronte a lui aveva la barba lunga e i capelli che gli arrivavano alle spalle, la faccia nera e i vestiti laceri. Quando lo sentì parlare, Sørlle scoppiò in lacrime. Quell’uomo aveva detto: “Mi chiamo Ernest Shackleton”.

 

Seicentocinquattonto giorni prima, l'uno di agosto del 1914, il capitano che portava quel nome levava l’ancora da Londra a capo della Imperiale Spedizione Antartica. Era diretto verso l’Antartide, una terra incognita, più vasta dell’Europa, per tentarne l'attraversamento da mare a mare, partendo da est.

Shackleton, che i suoi uomini chiamavano semplicemente “Il boss”, partì a capo di un equipaggio di 27 persone tra marinai, cuochi, artisti, scienziati, un clandestino poi promosso cambusiere e una muta di 69 cani da slitta. Curiosamente aveva aggregato all’equipaggio anche l'attrezzatura fotografica del regista free lance Frank Hurley, ma non una radio trasmittente, considerata all’epoca un affare di poca utilità, nonostante avesse già salvato centinaia di vite umane nei giorni del Titanic.

 

La nave su cui salparono si chiamava Endurance ed era uno degli ultimi capolavori dei maestri d'ascia norvegesi, costruita con tronchi che avevano già in natura le curvature necessarie all'uso navale e propiziata ponendo una moneta da una corona sotto l'alberatura.

L’Imperiale Spedizione Transantartica fallì ufficialmente a poche settimane dalla partenza, il 19 gennaio 1915, per un caso imprevedibile. Mentre viaggiava nel mare di Weddel e a sole 80 miglia dall’Antartide, l'Endurance si trovò stretta da enormi lastre di pack spinte dal vento e rimase imprigionata, così come scrisse nel suo diario il magazziniere di bordo: “in mezzo ai ghiacci, come una mandorla in una tavoletta di cioccolato”.

Gli uomini, nei primi mesi, rimasero fiduciosi in attesa del vento che avrebbe spazzato via i blocchi ammassatosi intorno all’Endurance. Quando iniziò l’inverno australe e la lunga notte polare, Shackleton non nutrì più speranze sulla sopravvivenza dell’imbarcazione. L'equipaggio si preparava ad affrontare sulla nave mesi lunghi e bui con temperature che scesero fino a 45 gradi sottozero. L’agonia della Endurance fu maestosa. Le foto di Hurley ce ne mostrano lo spettro fluorescente nel ghiaccio della notte artica. Il 27 ottobre 1915, dopo 9 mesi di prigionia nei ghiacci, la pressione del pack sullo scafo divenne insostenibile e l’Endurance si piegò, squarciata su un lato. Gli uomini abbandonarono la nave, che si inabissò il 15 novembre.

Le correnti, nel frattempo, avevano portato l’equipaggio alla deriva per più di mille miglia nautiche, lontanissimi da terre abitate e dalla loro meta, nei cui pressi si sarebbero aggirate eventuali squadre di soccorso. Shackleton diede l’ordine di salvare dalla nave le provviste, i cani, il materiale fotografico e le tre scialuppe di salvataggio. Prigionieri su un blocco di ghiaccio di qualche chilometro quadrato, con temperature sempre sotto lo zero, i 28 sopravvissero con una dieta basata su carne di pinguino e la costante minaccia del congelamento e della cecità da neve. Per mesi  la corrente portò alla deriva Shackleton e i suoi uomini in condizioni sempre più estreme, tanto che il boss fu costretto ad ordinare l'abbattimento degli animali per risparmiare provviste e alleggerire il carico.

L'iceberg su cui si erano accampati e su cui avevano trascinato con enorme fatica le tre scialuppe si assottigliava sempre di più e il 9 aprile 1916 Shackleton dispose di salire sulle imbarcazioni per rimettersi in mare. Saranno 5 giorni di navigazione terribili, tutti trascorsi ai remi e alle vele senza chiudere occhio. La destinazione finale fu l’isola di Elephant, un enorme scoglio innevato,  spazzato da venti gelidi ed impetuosi. La malridotta Imperiale Spedizione Antartica toccava terra dopo 497 giorni. Il tratto di costa che accoglieva gli uomini non era più largo di trenta metri e profondo quindici. Tutti sapevano che il resto del mondo che ancora si ricordava di loro, li aveva dati per morti.

A Shackleton fu subito chiara la necessità di ripartire prima dell’arrivo dell’inverno per portare soccorsi. Si imbarcò il 24 aprile del 1916 con 5 compagni sulla scialuppa "James Caird", una nave di sette metri di lunghezza, con l’obiettivo di raggiungere la Georgia Asutrale, un'isola di circa 20 Km di lunghezza a oltre 1.500 chilometri di distanza, attraversando uno dei mari più tempestosi al mondo, dove le onde si sollevano ordinariamente per oltre 7 metri, fino a raggiungere spesso i 20.

Per centrarla avevano a disposizione solo un sestante ed un cronometro, con cui provavano a tracciare la rotta quando le nuvole lasciavano intravedere il sole. Le onde spinte da un vento a 150 Km orari si abbatterono sulla Caird con furia inaudita e gli uomini a bordo lotteranno duramente per riportare lo scafo e se stessi alla vita. Con un capolavoro di perizia nautica approderanno alla meta il 10 maggio 1916, presso la Baia di re Haakon. Non era l’ultima fatica di Shackleton.

 

L’approdo, infatti, distava una decina di miglia in linea d’aria dalla base baleniera e il boss, lasciati i tre uomini più stanchi sulla piccola spiaggia di approdo, percorse con due compagni, per la prima volta al mondo e senza nessuna attrezzatura, la catena di monti e ghiacciai che lo separava dalla salvezza. Si presenterà così allo sbigottito Sørlle.

Messi in salvo i 3 della Baia Di Re Haakon, Shackleton organizzò ben 4 spedizioni per recuperare i superstiti dell’isola Elephant, che nel frattempo attendevano sopportando un inverno rigidissimo e tribolazioni di ogni genere. Solo ad agosto la banchisa lascerà passare il rimorchiatore cileno Yelcho con a bordo il boss.

 

Il 30 agosto del 1916 sull’isola Elephant era un giorno plumbeo come sempre. L’artista George Marston si trovava su un picco per disegnare il paesaggio intorno quando si accorse di un filo di fumo all’orizzonte.  “Tutti bene? Tutti salvi?” sono le parole che il boss rivolge dall’imbarcazione di soccorso ai suoi. “Tutti bene” gli rispondono gli uomini sull’isola, che contro ogni logica non avevano dubitato mai della salvezza.

A bordo del vapore Yelcho quegli uomini si lasciavano alle spalle il vasto silenzio del desolato sud  che avevano abitato per oltre due anni. Dietro di loro, nel tepore della salvezza, si scioglieva un tipo d'uomo e affiorava minaccioso un secolo che avrebbe annullato il gesto individuale per preferirgli l’organizzazione di tipo militare, sostituendo la responsabilità personale con il dovere astratto. Negli stessi mesi in cui Shackleton lottava con fede disciplinata (certamente di radice vittoriana) contro una Natura dello stesso tipo che si parò di fronte all’Islandese di Leopardi e ne prendeva a schiaffi la faccia attonita, salvando tutti i suoi uomini, stupidi generali a cui abbiamo dedicato piazze e monumenti utilizzavano noncuranti i loro uomini come quantità da mandare al massacro per conquistare col sangue un palmo di terra che avrebbero perso il giorno dopo, a un prezzo di sangue ancora maggiore.

L'avventura dell'Endurance, nel congedare un’epoca, parla oggi un linguaggio, per usare un termine più insidioso dei ghiacci antartici, religioso. Il capitano che torna a riprendere i suoi uomini che lo attendono anche quando la logica imporrebbe la disperazione è la potente metafora di ogni fedele che salmodia al buon pastore, al dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, a colui che tra i 99 nomi ha quello di chi provvede e vigilia.

La nave di Shackleton che si avvicina alla terra desolata e promette di nuovo casa ed abbracci e tabacco profumato e cibo dolce e poi di nuovo avventure, è l’immagine commovente che ognuno dei 28 uomini della spedizione e tutti noi, in fondo, vorremmo si svolgesse sotto le nostre palpebre chiuse nel momento supremo; quando nel buio che ci avvolgerà aspetteremo di vedere apparire qualcuno che eroico ed ostinato verrà a salvarci.

 

***

Nelle foto l’Eendurance prigioniera dei ghiacci, gli uomini dell'equipaggio che provano a liberarla, il trasporto della James Caird sul ghiaccio, la partenza della James Caird, e una foto di gruppo della spedizione.

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Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

Paul Valéry

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