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  • Argomento: Storia

L’enfiteusi delle terre segna la data dell’emancipazione delle plebi cittadine dal giogo feudale, e della conseguente comparsa della borghesia. Quella proprietà rimasta per tanti secoli stazionaria, immutata, incontrovertibile, trovando un nuovo assetto cominciava a muoversi, a circolare, a trasformarsi: il conte presso cui stagnava ogni ragione, rinunciava ad un diritto integrale, chiamava i vassalli al condominio della terra, e questo era bastevole a destare tutte le attività ed iniziare un processo evolutivo di commercio, di proprietà, di ricchezza

 

Chi scrive sull’ordinamento della Contea, sviluppatosi dai Cabrera (1392-1477) agli Henriquez-Cabrera (1474-1702), è Raffaele Solarino.

Il primo conte, Bernardo (1392-1423), succeduto ai Chiaramonte, estese il dominio aggiungendo alla Contea i territori di Giarratana, Chiaramonte, Monterosso, Biscari, Comiso, Spaccaforno.

 

Con l’introduzione dell’istituto dell’enfiteusi i Cabrera mantennero florida la Contea. I grani venivano raccolti in appositi caricatoi e dal nuovo dinamismo nasceva il bisogno di un luogo d’incontro per gli affari; a Ragusa venne chiamato “Toccu” il ritrovo di togati e di commercianti, di mediatori e venditori provenienti da ogni parte dell’isola: un edificio dagli ampi portici, dove si assegnavano anche le gabelle. La Contea, a partire dalla metà del secolo XVI, conobbe un periodo di grande splendore con l’affermazione di solidi possidenti e maestranze, i cui statuti e capitoli furono emanati nel 1542 dal fiorentino Bernaldo Del Nero.

Felice l’espressione “Contea policentrica” coniata dallo storico Giuseppe Barone: «Lungo il Cinquecento e il Seicento l’elemento originale delle cittadelle iblee è quello di non essere state schiacciate dal soffocante predominio di qualche "capitale lontana" (Palermo, Messina, Catania), ma di essere riuscite a organizzarsi come centri urbani di medie dimensioni, dotate di autonome classi dirigenti tra loro collegate da un’istituzione sovralocale (la Contea) e con una spiccata vocazione agricolo-commerciale».

Lo Stato nello Stato, dunque; un piccolo regno nel regno con un reticolo associativo legato alla censuazione delle terre. «Sicut ego in regno meo et tu in Comitato tuo» (Come io nel mio regno tu nella tua contea): così veniva detto nel diploma del 20 giugno 1392 con cui re Martino concedeva la contea all’aragonese Bernardo Cabrera. A beneficiare dell’enfiteusi furono diversi ceti sociali, tra cui numerosi contadini risparmiatori. Diverse le clausole: l’obbligo per l’enfiteuta a risiedere nell’area concessa pena la sua revoca e provvedere alla delimitazione dei poderi, nascendo così la pratica dei muri a secco. Difatti dopo il 1562 un bando aveva prescritto: «ogne uno chi havi accattato terra di la dicta curti, quelli diino circumdari di mura, di fossati oi sepali».

Le terre, come sappiamo dalle ricerche di Giuseppe Raniolo, venivano anche vendute con dilazioni di pagamenti, gravati dall’interesse annuo del 10%, dopo la relativa stima da parte di esperti, detti “arbitri”. Ad imporsi fu la trasformazione del paesaggio agrario con opere di bonifica, tra cui il prosciugamento degli acquitrini, la canalizzazione delle acque, il dissodamento della terra. L’esito fu l’incremento della produzione e del traffico commerciale, via terra e via mare. Trovarono sviluppo le relazioni commerciali: un accordo, rimasto in vigore fino al Settecento, dispensava i mercanti di Ragusa e di Trapani dal pagamento della franchigia doganale per favorire il commercio fra le due città. L’ampliamento del caricatore di Pozzallo con magazzini e fortificazioni difensive fu di grande importanza, giacché godeva di una franchigia di esportazione per 12.000 salme di cereali.

A Bernardo Cabrera successe Bernardo Giovanni: «Ma per quanto prode in guerra, altrettanto si mostrò tiranno verso i propri vassalli». Nel 1447 insorsero i ragusani contro le angherie feudali, vittime poi di una dura repressione: con la rivolta si ebbe l’incendio dell’archivio del castello che portò alla distruzione della documentazione sulla Ragusa antica e medievale. Da allora, il contado, che la città deteneva dal 1060, venne trasferito a Modica. «Un distico – scriveva Guastella nell’Ottocento – udito da una popolana di Modica, mi pare potesse adattarsi a quel Giovanni Cabrera, prima divenuto esoso con le angherie, poscia benemerito con le concessioni enfiteutiche ai vassalli: Crapuzza, ca ppi nui si’ crapa r’oru / Rinnillu, si spiddiu lu tiempu amaru!». Chiara l’allusione allo stemma dei Cabrera: d'oro alla capra rampante di nero, simbolo di potenza per il popolo ed altresì evidente l’attesa fine di ogni sopruso.

Nel 1457 era un fatto compiuto lo smembramento graduale della vasta Contea per debiti ereditati dal padre o contratti posteriormente da lui. Sicché, l’estensione si ridusse per concessioni di alcune aree (il territorio di Biscari, di Chiaramonte – poi ricomprato -, di Comiso, di Giarratana, di Spaccaforno): “talchè al Conte non rimasero che Modica, Ragusa, Chiaramonte e il maggior reddito di Scicli”.

Col figlio Giovanni II o Giannotto la Contea conobbe il periodo buio segnato dalla strage degli ebrei con centinaia di uccisi senza alcun riguardo al sesso, all’età, alla condizione, perpetrata a Modica il 15 agosto 1474 su istigazione del clero locale. Sicché, l’eccidio poneva fine in un modo brutale la secolare pacifica convivenza fra le etnie[1].

Non fu assente a Ragusa un’attività chiesastica: completarono i Cabrera la chiesa di San Giorgio, i cui lavori, affidati all’architetto ragusano Di Marco, furono ultimati nel 1550 (restò superstite dopo il terremoto il magnifico il portale gotico-catalano che rappresenta nella lunetta il santo cavaliere nell’atto di uccidere il drago per liberare la principessa di Berito). Preziosa la “Cona” del Gagini voluta nel 1573 dai Giampiccolo, baroni di Cammarano, come segno di devoto ringraziamento a seguito della vittoria a Lepanto della flotta cristiana. Nel quattrocento sorse la chiesa di San Giovanni Battista, parrocchia del quartiere dei cosiddetti cosentini e notevole fu il ruolo svolto dal Convento di San Francesco: transito di culture per la presenza di francescani che avevano studiato all’Università di Padova.

Ragusani, e di probabile origine aristocratica[2], i fratelli Carlo e Teodoro Belleo che vissero nel ‘500[3]. Carlo, francescano dei Minori Conventuali, fu teologo, filosofo e insigne predicatore («brillante, incisivo, ma anche flessibile e capace di adattarsi, secondo le circostanze, al livello culturale dei suoi ascoltatori»). Forse ricevette la prima formazione nel convento dei frati minori conventuali di Ragusa. Nella sua stessa città natale, il 10 gennaio del 1568 fu eletto Maestro Provinciale dell’Ordine. Teodoro, forse il più giovane dei due, da medico si dedicò alla storia della medicina. Entrambi, per motivi di studio, trascorsero a Padova buona parte della loro vita. Dal 23 ottobre 1575, Carlo fu titolare della cattedra di metafisica scotista fino al 21 maggio 1580, data della sua morte. Con il De secundarum intentionum natura tractatus, rimasta inedita per molti anni e pubblicata postuma a Venezia, nel 1589 con una tiratura assai modesta, si inserì in un dibattito protrattosi nell’arco di quattro secoli. Teodoro, che si definiva “siculus ragusanus” estese i suoi contatti culturali coi suoi viaggi a Parigi e a Madrid ed ebbe legami di amicizia con Vespasiano Gonzaga Colonna, organicamente collegato alla Corona di Spagna. Studioso e interprete con metodo filologico degli aforismi di Ippocrate, rimase tuttavia ancorato alla supremazia della “ratio philosophica” che predefiniva l’oggetto della ricerca scientifica. La sua opera fu stampata a Palermo nel 1571 “apud Ioannem Mattheum Mayda".

Nasceva nel quartiere degli Archi il Monte di Pietà (1545), nonché l’Ospedale di San Giuliano attiguo alla chiesa della Madonna dell’Itria[4]. Il Convento di S. M. di Valverde, risalente al XIV secolo, passava nel 1538 alle Carmelitane sotto la guida della badessa Sigismonda Iurato.

Solarino ricorda le diverse pesti succedutesi dal 1522 al 1729 che spensero migliaia di vita. Quella del 1575-76, probabilmente causata dall’arrivo a Palermo di navi e mercanti, si diffuse in tutta la Sicilia, facendo migliaia di vittime nella Contea: più di 3.500 a Modica e oltre a 5400 a Ragusa.

Intanto la città cominciava a salire verso il Patro e secondo alcune fonti si accentuava il contrasto fra Sangiorgiari e Sangiovannari. L’arrivo, nel 1560 dei padri carmelitani, favorì lo sviluppo del quartiere Carmine con la costruzione dell’omonima chiesa, nonché della scalinata di 269 gradini che lo congiunge al San Paolo di Ibla: verrà chiamata “Scalinata Padre Adalberto Togni”[5].

Estintosi il ramo maschile dei Cabrera, fu il re a decidere di dare in moglie Anna de Cabrera a suo nipote Alfonso Henriquez, figlio del grande ammiraglio di Castiglia. Da qui si afferma la dinastia degli Henriquez-Cabrera che tenne la Contea fino al 1702. Nel 1713 con il trattato di pace di Utrecht la Sicilia veniva ceduta a Vittorio Amedeo di Savoia.

 

Federico Guastella

 

 

[1] Le ricerche di Modica Scala nel volume Le comunità ebraiche nella Contea di Modica (ed. Setim, Modica, 1978), dopo quelle del Di Giovanni e dei fratelli Laguminia nel Codice Diplomatico dei Giudei di Sicilia (“l’opera di maggiore impegno ed interesse”), approfondiscono l’argomento, già toccato da Raffaele Solarino.

[2] Sulla famiglia Bellio (Belleo) cfr.: E. Sortino Trono, Nobiliario di Ragusa, Forni editore, Sala Bolognese, 1977 (ris. anast. Dell’ediz. di Ragusa, 1929).

[3] M. Pavone (a cura di), Le opere di Carlo e Teodoro Belleo. Centro studi “G. B. Hodierna” Ragusa (CI. DI. BI., Ragusa, 1992).

[4] Noto anche come “Ospedale vecchio”, svolse l’attività in occasione della peste che nel 1522 colpì Ragusa. Durò due anni e dimezzò quasi la popolazione: su 12.000 abitanti ne morirono 5.430). Dopo, l’ospedale, che funzionò fino al 1800, prese soprattutto in cura i malarici.

[5] Figlio della famiglia circense dei Togni. Paleontologo, aveva raccolto reperti messi a disposizione degli studenti. Diede un vigoroso impulso al convento che divenne polo di aggregazione giovanile.

 

 

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