Cultura
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  • Argomento: Musica

È costante il ricorso al mito greco che Quasimodo rivela nei libretti d’opera, scritti dal secondo dopoguerra, sui personaggi omerici ed ovidiani quali Orfeo, Euridice, Galatea, Polifemo e Ulisse: «Se la vis drammatica di Orfeo è giocata sulla tensione classicità/età contemporanea, il libretto L’amore di Galatea rinunzia almeno apparentemente, al legame con il presente»[1].

Complessa è la struttura narrativa e diversa la trama rispetto alla leggenda comunemente raccontata. La vicenda, che si snoda in tre atti, mostra l’isola nel pittoresco paesaggio tra mare e colli:

Sicilia. Una riva appena alta con scogli, sul mare Jonio. A destra l’Etna nevoso con una striscia di fumo. I colli sono fioriti. A sinistra si vede il fiume Alcantara vicino alla foce. Galatea e le ninfe marine giocano con le onde, mentre altre ninfe, sparse sugli scogli, cantano l’elogio di   Galatea.

Il primo atto inizia dunque con le ninfe inneggianti alla bellezza di Galatea con immagini fluide e sensuose, luminose e morbide:

O Galatea, tu sei bianca più della foglia / di neve del ligustro, più fiorente dei prati, / snella più dell’ontano, splendente più del cristallo, più lasciva / del tenero capretto, più liscia delle conchiglie / levigate dal moto assiduo del mare...    

 Segue il dialogo d’amore tra lei ed Aci, il pastore. All’ingresso in scena di Polifemo, dominatore della natura, le ninfe fuggono spaventate, Aci si allontana e Galatea ritorna in mare. Il ciclope le promette in dono i beni da lui posseduti. Poi, il grido minaccioso: «Ma perché mi rifiuti e porti amore ad Aci? // Ma se lo prendo, sentirà quale forza / è chiusa nel mio corpo».

 La ninfa boschiva Astra lo supplica a tornare da lei. L’atto si conclude con l’uccisione di Aci da parte di Polifemo, suo rivale. Schiacciato con un masso, diversamente dal racconto ovidiano, viene dallo stesso ciclope trasformato in acqua.

Ti ho perduta Galatea! Il sangue / si muta in torbida pioggia, e dentro / questo lungo fiume sono prigioniero / dell’acqua senza forma. // Non ti vedo più Galatea: / un moto monotono m’insegue.

 

Nel secondo atto, Ulisse con i suoi compagni trova rifugio nell’isola per sfuggire alla tempesta ed entra nell’antro di Polifemo. Ai racconti sui suoi viaggi (le rive d’Itaca fino e le mura di fuoco d’Ilio, la guerra e l’apparizione di nuove terre, il canto di sirene e la nave che “correva con la chiglia verde di conchiglie”, mentre “i remi misuravano il tempo”), che insieme al vino lo coinvolgono, segue il tentativo di conquistare Galatea.

Lei dapprima lo respinge, poi cede al passionale corteggiamento, trovando in lui le qualità desiderate. Quelle della mitezza e della violenza, della dolcezza e della forza istintuale: «Sei mite, Polifemo / hai cuore di capriolo (…) Non tornare da Astra. // Sento la tua furia, / la tua dolcezza».

Parlando di lei con Ulisse, stavolta sicuro di sé imperiosamente afferma: «Galatea sarà mia, / il tempo è venuto / del mio inganno sottile. // Aci presto sarà dimenticato». Utilizzando l’astuta ragione, Ulisse lo persuade: «Avrai l’amore / di Galatea, i miei compagni / ti insegneranno molte cose. // Lasciaci ancora qualche ora di vita! // Non abbiamo paura della morte, / abituati alla legge del mare». Poi, supplicato dai compagni timorosi di essere uccisi dal gigante, lo fa ubriacare e lo acceca. Così muore Polifemo dopo avere udito la voce di Galatea in cerca di lui: «Io sento la tua voce Galatea: / è l’ultimo segno del mondo... ».

 

L’atto terzo inizia con il coro delle ninfe che piangono la morte di Polifemo: «I Ciclopi / scrollano i monti. // Tutto muore nell’isola». Galatea ora è consapevole del suo amore per lui; Aci altro non era che “inganno del pensiero”: bellezza inconsistente ed evanescente priva di realtà. Le sue parole sono struggenti: «Ti trovo nel mio amore / ora che l’ombra scivola / sulla tua fronte lacerata. // L’acqua come il tuo sguardo / mi chiama. La sua luce / ha il sonno dei papaveri, / entra nel mio corpo. Sento / il suo battito di paura». 

Sicché, per il disperato dolore si dissolve nell’acqua marina. Ed ecco Ulisse a parlarle freddamente da conquistatore, concludendo che la sapienza si nutre della morte: «Siamo trascinati / alla corda come cani / dalle buie bocche di pesce. // Avremo fame e sete / come quelli che verranno / ancora su queste rive, Galatea. La sapienza / vive nel dominio dei morti».

Alla domanda con la quale Galatea vuole conoscere l’identità dell’interlocutore, l’astuto navigante risponde: «Sono Ulisse d’Itaca / che naviga con la mente / senza sogni e interroga / il mare e la terra / sulla scienza dell’uomo / il suo valore».

Lei, riconosciuto in lui l’uccisore di Polifemo, lo invita a lasciare l’isola. Il dialogo coinvolge anche Astra che accusa Galatea e Ulisse con durissime e quasi profetiche parole: «Avventuriero di guerre, / guardati anche tu dalla morte. // Guardati dai Ciclopi e dal mare / e dal dolore di vedere vecchia / la tua donna d’Itaca».

Al Coro che annuncia il buio del dio dei Ciclopi, subentra la voce di Galatea sul suo destino:

Non ditemi nulla: / avrò una bara d’acqua / per tornare alla sua terra. // Nella sera sarò un’onda / che batte per voi, care, / come memoria nell’aria dell’isola. // Vieni, morte! Ascolto / l’ultimo rumore del mio sangue. Il cuore è un riflesso / nell’acqua. // Polifemo! Polifemo!

Un terremoto distrugge l’isola, annunciano le ninfe; sprofonda la cima del monte e il fuoco scorre dall’Etna; i Ciclopi si vendicano lanciando pietre contro i “vili pirati”. Mentre Ulisse con i compagni lascia l’isola annuncia il proposito della meta:

Torneremo alla terra / dove qualcuno ci aspetta. // Forse la vita è là / dove tremano gli ulivi d’Itaca. // Là il principio. // O più in là dell’estremo taglio del cielo? // Torneremo alla terra, là dove // conosceremo l’amore. // Il tempo si rompe / o dura con la morte.

Sicché, lo “straniero” Ulisse, giunto dal mare seminando la morte che sottrae agli indigeni il loro territorio, unitamente all’universo delle loro emozioni ed affetti, anela per contrasto a tornare sulla terra per conquistare l’amore: «In effetti – precisa Bombara – Polifemo, Aci e Galatea, componenti dell’antica identità smarrita dell’isola, sono tutti defunti, e destinati nella scena finale a vagare, grida il coro delle ninfe, come isole nella tempesta...».

Federico Guastella

 

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Note

[1] D. Bombara, Salvatore Quasimodo, neoumanista dagli scritti teorici a L’amore di Galatea, Amore Galatea – Lizzi 1964 – Libretti di opere siciliane (su Google).

 

 

Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

Paul Valéry

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