Cultura
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  • Argomento: Storia, Viaggi

Situiamoci idealmente a Mothia, nella piccola isola antistante Marsala, dove approdarono con le loro agili navi i fenici. Essi innalzarono templi dedicati al Dio Baal Hammon e alla dea Thanit "Faccia di Baal" e costruirono fondachi per il deposito dei prodotti che commerciavano e case da abitare.

Nel V secolo a. C. nell'isoletta si insediarono i punici (eredi dei fenici) per la vicinanza strategica a Cartagine e la protessero con spesse mura e porte di accesso, chiamandola Motya. “Filanda”, vorrebbe dire secondo alcuni studiosi, ritenendo che gli abitanti filassero le lane.

Si praticava, pare, il sacrificio di bambini: i primogeniti maschi e femmine, offerti alle divinità per ottenerne favori e si seppellivano i resti combusti, raccolti in vasi di terracotta coperti da una ciotola, nel tophet (in fenicio come in aramaico vuol dire “luogo di arsione”, al plurale è tephatin): un santuario a cielo aperto di sacelli e altari, un'area consacrata, in prossimità delle necropoli in cui venivano deposti ritualmente anche i resti di animali. Ogni sacrificio umano veniva attestato da una stele di pietra, figurata o meno, a carattere votivo e con iscrizioni[1].

A ridimensionare il fatto cruento c’è chi sostiene che i bambini bruciati dovettero essere prematuramente morti[2].

Feroce il destino di Mothia, trovandosi al centro delle guerre puniche. Distrutta definitivamente nel 379 a. C. da Siracusa, capeggiata dal tiranno Dionisio il Vecchio, rimase deserta fino a quando nel Medioevo vi si stabilì un gruppo di monaci basiliani che le assegnarono il nome di San Pantaleo. Con altre tre isolette – l’isola Longa, quella di S. Maria e della Schola, è la terra dello "Stagnone": paesaggio lagunare, mirabilmente basso e tranquillamente dolce da cui si scorgono i bianchi mucchi di sale coperti da tegole e i mulini a vento.

Sorprende l’insolita alchimia: è come un miraggio prodotto dal sole africano. Basse le acque, mutano di livello. Di recente, i carrettieri andavano dalla terraferma per mare a Mothia, e viceversa, grazie ad una strada sommersa, visibile dall’alto. Le acque potevano appena bagnare a metà le ruote dei loro mezzi di trasporto[3].

Gli inglesi, che commerciavano il vino, vi fecero da protagonisti. Nell’Ottocento Giuseppe Withaker, acquistata l’isoletta per piantarvi le viti, vi costruì la villa, dove fu ospite Garibaldi. Anche il museo, essendosi per primo dedicato agli scavi. E’ uno spazio di storia della comunità, proiezione di vita da tempi remoti. Vi abbondano teste femminili in cotto e c’è una maschera rarissima con un ghigno brutale. Quasi a far dimenticare quella strage di innocenti, fa luce di splendida bellezza la statua greca del cosiddetto "Auriga" (o "il Giovinetto di Mozia"), trovata nell’ottobre del 1979.                                     

A vederla vengono in mente i raffinati versi di Pindaro:

Oh santa giovinezza, messaggera di Cipro e di Eros,
giovinezza che troneggi sulle ciglia delle vergini
e nei languidi sguardi di un bell’efebo;
giovinezza che dolcemente ci culli nelle tue braccia,
e sai anche accendere i nostri sensi

Sicuramente l’artefice dovette essere un esperto scultore conoscitore dell’arte di Fidia, e forse comprata da qualche ricco signore del luogo. Gli archeologici l'hanno trovata presso il forno di un vasaio. Nulla si sa di certo. Chissà dove fosse stata scolpita (forse in una città greca della Sicilia, Selinunte o Agrigento).

Lo stile e il secolo in cui si possa collocare sono ignoti. Permangono i dilemmi, gli interrogativi, le ricerche. Il V secolo a. C.è la datazione possibile, probabilmente la prima metà.

Ha un volto dai lineamenti finissimi l’auriga e la particolare fattura della veste sembra essere adatta ad un personaggio importante. La testa è leggermente inclinata e il viso appare avvolto da una acconciatura a riccioli. Indossa un chitone, veste comune nell’antica Grecia, leggero, lungo e con pieghe tanto sottili da dare l’effetto della trasparenza. Lo vediamo stretto da una cinta all’altezza dei pettorali che mette in risalto le possenti forme e la muscolatura, specie nella parte posteriore.

Chissà… La maestosità farebbe pensare ad un luogo importante – un tempio o una piazza – in cui la scultura venne collocata.

 Volgiamo adesso l’attenzione a Bagheria, deliziosa cittadina a quindici chilometri da Palermo.   Affiorano alla memoria nomi quali Ignazio Buttitta, Renato Guttuso, Giuseppe Tornatore. Vi sono nati e ciascuno con la propria arte ha manifestato un’epoca, una storia, i ricordi. Il dopoguerra degli anni ‘50-’60, in particolare.

Dacia Maraini dà del paese una deliziosa testimonianza nel romanzo Bagheria: «ha conservato quell’aria da “giardino d’estate” circondata di limoni e ulivi, sospesa in alto sopra le colline, rinfrescata da venti salsi che vengono dalle parti del Capo Zafferano».

Auliche ville impreziosiscono la città, nel Settecento luogo di villeggiatura dei nobili palermitani. Il profumo degli agrumeti, dei limoni come li dipinse Guttuso, e del mare dei pescatori di Aspra è inconfondibile. Seducente il paesaggio di rocce aspre che lo rendono vitale e oltremodo suggestiva Villa Palagonia, conosciuta come “villa dei mostri” e visitata il 9 aprile 1787 da Goethe.

La descrisse nel Viaggio in Italia, mostrandone quasi con fastidio il “cattivo gusto” (il disordine e la follia, l’oscurità e la disgregazione). E certamente contrastante con la bellezza neoclassica, sostenuta dal Winckelmann, dovette apparirgli la singolare costruzione architettonica voluta da un “mentecatto”. Così aveva definito l’aristocratico bagherese, principe di Palagonia.

Era un privilegio allora, uno status simbol possedere una villa in quell’amena e fertile località. Nasceva così il borgo nel 1769 ad opera di Salvatore Branciforti principe di Butera. E già Ferdinando Francesco Gravina Cruillas, il IV principe di Palagonia, aveva acquistato tre salme di terra, dove nel 1715 erano iniziati i lavori della villa con la partecipazione di artisti e di manodopera locale. Volle circondarla di bizzarre immagini a cielo aperto sulla cinta delle mura che racchiudono il giardino: spazio scenico per eccellenza per un teatro litico-carnevalesco avvolto nel mistero. Se ne contavano di statuette oltre duecento e ne sono rimaste un centinaio che con la perdita dello stucco appaiono più grottesche e di grossolana fattura.

Eclettiche figure, in sostanza, tratte dalla pietra porosa ricavata dalle cave arabe di Aspra. Hanno diversi e compositi aspetti: per esempio, musici e animali antropomorfici che ci riportano al bestiario medioevale, figurazioni mitologiche come il ratto di Proserpina, centauri, gobbo con stampelle e putto su centauro. Giochi letterari figurativi estremamente surreali e beffardi con qualche accenno esoterico-massonico (il riferimento va alla posizione del braccio destro delle statue poste all’ingresso, indicante il saluto a squadra): a volte divertono, talora spaventano e altre volte suscitano tenerezza per il modo ilare di esprimersi.

L’aveva annotato Goya: El sueño de la razón produce monstruos (il sonno della ragione genera mostri), titolo dato ad un’acquaforte e acquatinta realizzata nel 1797. E sembrano dare ora un senso di solitudine che evoca lo spettro della morte. Si potrebbe pensare alla trasgressione nel secolo della ragione: l’antinorma in opposizione alle regole, il disordine che soffoca l’ordine.

Folle il principe di Palagonia non era. Anzi all’opposto: vissuto nel XVIII secolo e morto nel 1788, un anno prima della Rivoluzione francese, fu uomo colto e di tendenza illuministica. A Palermo andava in giro per le strade a chiedere beneficenza per la liberazione degli schiavi siciliani in Barberia. Ironico e dotato di molta fantasia, ha voluto dar vita a uno spettacolo, a mo’ di ricreazione, ridente e irridente. Tutto il palazzo trasmette la particolare emozione del sotterraneo coscienziale.

Teatro dell’inconscio, spettacolo di vizi, stati d’animo e incubi goyeschi, museo ludico-beffardo Villa Palagonia o castello incantato a dirla con Patrick Brydone? Un po' dell’uno e dell’altro.  Sicuramente un racconto litico per una società feudale che avrebbe voluto conservarsi con l’immaginazione, con i sogni, con le illusioni. Chissà se l’abbia visitata Pirandello, brillante ideatore della “villa degli scalognati”, in cui gli ospiti cantavano e fantasticavano!

Ha scritto Natale Tedesco[4]: «Con le sue opere Ferdinando Francesco Gravina si offriva senza concedersi del tutto, come il suo palazzo, tra l’altro aperto con le sue mirabili terrazze, la leggendaria loggia e gli splendidi scaloni barocchi, chiuso con i suoi massicci bastioni tardo-rinascimentali di ascendenza militare».

Il silenzioso luogo recita solamente coi gesti e di sicuro fa vivere fuori del tempo.

Federico Guastella

 

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[1]    Varie le fonti che si riferiscono a questo rito sacrificale a cominciare dal testo biblico. Nel passo 23, 10 del secondo Libro dei Re si legge: “Dissacrò Tophet che è nella Valle di Ben Ennom, acciocché nessuno più facesse più passare per il fuoco il proprio figlio o la propria figlia in onore di Moloch”. Il passo si riferisce alla riforma religiosa di Giosia che regnò sulla tribù di Giuda dal 640 al 609 a.C. In altri brani del Libro dei Numeri si trovano “elementi contrari all’ipotesi del sacrificio: i primogeniti sono sì riservati al Signore, ma non per essere sacrificati, bensì per l’assolvimento di compiti religiosi” (S. Moscati).

[2]    S. Moscati, Gli adoratori di Moloch, Jaca Book, Milano, 1991.

[3]    M. Collura, Sicilia sconosciuta – Itinerari insoliti e curiosi, Rizzoli, Milano, 1998.

[4]    N. Tedesco, L’immaginario di Ferdinando Francesco di Gravina. Le figure dell’eccezione: come bestiario, come teatro, in C. Puleo, Villa Palagonia. Un fantastico sogno barocco, Officine Tipografiche Aiello & Provenzano, Bagheria (Palermo), 2011.

 

 

Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

Paul Valéry

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