Cultura
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Riflessioni di Giovanni Occhipinti

(prima parte)

 

Pubblichiamo, qui di seguito, un contributo a firma di Giovanni Occhipinti, figlio degli iblei, poeta, narratore e critico letterario tra i più apprezzati del secondo Novecento, che con le sue opere segna la sua già estesa presenza nel variegato panorama della letteratura italiana contemporanea.

Allo scopo di rendere la lettura più agevole, il presente saggio è stato suddiviso in tre parti che saranno pubblicate in rispettivi momenti diversi.

G.N.

 

 

***

A ciascun uomo il proprio Giobbe! Con questa riflessione mi accosto agli Atti del convegno del 6-7 giugno 2012, raccolti nel volume, di recente pubblicazione, curato dal teologo Massimo Naro -Mi metto la mano sulla bocca (Città nuova, 2014) -, voluto e sostenuto dalla Facoltà Teologica di Sicilia e dal Centro per lo Studio della Storia e della Cultura di Sicilia. Lo scopo è individuare ed evidenziare o segnalare gli echi sapienziali presenti nella produzione letteraria italiana del Novecento. 

 

L'uomo, nel corso della propria vita, si interroga e interroga, cerca risposte che lo acquietino, non lo facciano sentire spiritualmente solo. Punto focale del convegno, come già avverte Naro, è Giobbe, che insiste e si dispera sul perché del dolore alla radice dell'esistenza dell'uomo. Siamo al tragico della vita, che sembra soffrire il rigetto della parola che invoca certezze; e Naro sa bene come svelarci lo spirito di un convegno che certamente ha scritto una pagina profonda sulle domande dell'uomo a Dio e su Dio. Inizierei dalla riflessione storica che il teologo racchiude in un neologismo intrigante, la cui matrice, - gnosi, gnostico -,  nella storia del cristianesimo, è ricca di significati: gnosticheggiante, un participio sostantivato derivato per suffisso da gnostico. Dunque, colui che gnosticheggia. Siamo al conio di una nuova voce verbale: gnosticheggiare

Gnosticheggiamo su Dio? Perché no, se siamo disposti, pur di trovarlo, a percorrere sentieri diversi di fede e di dottrina! Cerchiamo il miracolo della teofania! Vorremmo, ma ci è impossibile affrontare col nostro raziocinio la teodicea nel suo aspetto più complesso e enigmatico, quello relativo alla presenza del male in rapporto alla giustizia e all'onnipotenza di Dio, secondo il pensiero leibniziano. E perché ci si affida al deismo o al teismo o alla teologia dogmatica, morale, mistica? o alla teologia storica (ebraica, cristiana, islamica)? Quale ermeneuta mai riuscirà a illuminare i sensi arcani della Scritture? Che cruccio il Dio difficile per la nostra mente, il Dio che ci sovrasta incuriosisce inquieta! Eppure, lo invochiamo, ci ribelliamo, ci interroghiamo, interroghiamo! Dio è nella fede o è possibile averne (come vorremmo) una conoscenza diretta, assoluta? o la fede deve necessariamente prescindere dalla conoscenza ed è tale in quanto ne prescinde? Eppure, la conoscenza favorirebbe una fede e una pratica cristiana forti e certe, a tutto vantaggio dell'umanità e dell'esistenza. O no? Ma ecco che l'uomo deprivato di una fede certa e tenace finisce per disorientarsi, gnosticheggia, azzarda speculazioni teologiche che ne favoriscono l'abbandono all'ateismo o lo espongono al rischio dell'idolatria, come gli ebrei di Mosé nel deserto. L'esistenza, purtroppo, è fatta di tanti, molti vitelli d'oro, al di là e a dispetto del racconto vetero-testamentario sulle tavole delle Leggi, che contengono grandi e immortali verità universali che certamente riconducono all'onniscienza divina. Saperne dunque di più, che vantaggio, quale inestimabile grazia per il povero uomo della Terra e/o del Cosmo! Di certo, lenirebbe e concilierebbe il dolore, la sofferenza della terra, o cosmica, con l'amore di Dio. Di questo,  l'uomo vorrebbe parlare con Dio. Soprattutto, per smettere lo sterile esercizio di gnosticheggiare nel buio dell'esistenza, che favorisce la disperazione e fors'anche la bestemmia di Giobbe e di Leopardi, come ricorda Naro nell'introduzione a Mi metto la mano sulla bocca. O dovrebbe, l'uomo, non parlare, non dire, secondo la proposizione di Wittgenstein: “Si deve tacere su ciò di cui non si può parlare”? Ma finiremmo -ahimè- per soccombere alla fissità catatonica dello sguardo sul nulla! E allora? Potrebbe mai essere definita un simbolo di fede la bestemmia come ribellione e disperazione? Una bestemmia è una bestemmia: potrebbe mai l'orecchio di Dio sfumarla? o forse sì, se questa, implicitamente e paradossalmente, reca con sé la preghiera l'invocazione il perdono la richiesta di misericordia?

Perché definivamo intrigante l'uso che Massimo Naro fa del termine gnosticheggiare?, perché in certo senso potrebbe esercitare una funzione maieutica che libera del peso di una colpa che non dovremmo sentirci sulla pelle, affrancandoci dall'angustia di non aver saputo amare Dio e aver ceduto di fronte alla barriera della cecità. Mi chiedo, perché l'uomo si imbestia si cainizza massacra e, peggio, si organizza e pianifica l'eliminazione del proprio simile, ovunque sia sul pianeta? Ma quante altre domande ribollono nella mente... Cristo parlava da profeta, come tanti del suo tempo, come lo stesso Giovanni Battista, o da Figlio di Dio? L'afflizione del dubbio ci porta a essere gnosticheggianti, a chiederci per sapere da quale parte stia la verità e se la verità sia assolutamente divina e se il tempo la offuschi, offuscando le menti degli uomini. Forse che il Male - ci chiediamo talvolta – è contenuto nell'immensità del Tempo? e perché il Male deve poter contrastare e talora sovrastare il Bene, il Sommo Bene, che coincide con Dio? è forse, il Male, la medesima sostanza del Tempo? ma non è forse vero che il Tempo coincide con Dio e in Lui si identifica? Agostino di Ippona ce lo ricorda. E allora, perché non è dato all'uomo, per il suo stesso bene, di essere depositario di tanta verità? Sarebbe tutt'altra cosa un mondo libero dalla mondità e dall'afflizione del negativo esistenziale!

 

Bene, tutto questo e altro e altro ancora passa per la letteratura del Novecento, non solo italiana, insieme al dolore ai sussulti ai subbugli del mondo. E tutto questo si condensa negli interrogativi e nelle tensioni e pulsioni e smarrimenti di tanta poesia e narrativa del trascorso secolo. Penso ai Canti dell'infermità di Clemente Rebora, penso al Testori di Nel tuo sangue, Ossa mea, Conversazione con la morte; e al grande dramma teologico di Giorgio Caproni e di Dario Bellezza consumato dal cancro; penso a Il supplente L'erede del Beato, di Angelo Fiore; e a Ballate ebraiche  di Elsa Lasker-Schüler e alla sua lacerante domanda, lacerante e gridata: “[...]/Dio, dove sei?”; penso alle parole strazianti e rassegnate, ma già permeate di fede di Giorgio Saviane, dopo l'esperienza dell'ictus, in Voglio parlare con Dio: “[...], vivo per cercarti, Dio, quasi l'ictus sia una risorsa e non una malattia”; e James Agee, e Jean Cau con i suoi personaggi ne La pitié de Dieu (che ispirò a Bufalino Le menzogne della notte), e altri del Novecento europeo e mondiale, per esempio Nietzsche ne Al Dio ignoto, o Verlaine che lamenta: “I Cieli mi hanno rifiutato i battiti divini”; e Dylan Thomas che si rattrista per i “Cieli noncuranti” (il pagano Lucrezio, nel suo De rerum natura ci conforta con versi come questi: “Infine, noi tutti veniamo da un seme celeste; /a tutti è padre comune il Cielo”).

Che dire?, è proprio così? Il dubbio ci riassale. Eppure, Agostino ne Le confessioni, a proposito del tempo, precisa: "Padre, io investigo, non affermo"; e aggiunge: "Guidami, o Dio, e sostienimi".

Abbandonarsi dunque a Lui, altro che gnosticheggiare!  Abbandonarsi a Dio è un atto di grande fede, mentre gnosticheggiare vuol dire un tentativo della ragione di andare oltre se stessa, sia pure per strade diverse, e voler presumere l'impresumibile, voler considerare quasi illimitata la nostra facoltà di conoscere... E' anche per questo che la letteratura prende a piene mani dalla letteratura teologica e biblica, oltre a trarne ispirazione.

Maritain, a proposito dell'opera d'arte e dei riferimenti sapienziali in letteratura, riporta queste parole di Mauriac: "Bisognerebbe essere santi. Ma allora non si scriverebbero romanzi".

Perché dice questo Mauriac? vuole forse affermare che nei romanzi, nell'opera d'arte c'è tutta l'ansia dell'autore che ricerca se stesso nei suoi personaggi? c'è una ricerca inconscia di redenzione in ogni opera d'arte? sono dunque, gli echi sapienziali, suscitatori di pensieri con facoltà di redimere? l'autore si redime attraverso il processo di redenzione dei suoi personaggi, come accade, poniamo, nella letteratura russa e francese? Sappiamo che l'autore, nel bene e nel male, tende a oggettivarsi nei suoi personaggi: se cadono o risorgono, cade o risorge il loro autore. In ogni pagina, insomma, c'è sempre una creatura nascosta, invisibile, che agisce o interagisce con i personaggi di un romanzo. Questa creatura è l'autore. Quante volte è sopraffatto dal dubbio? quante volte ha dovuto resistere? e perché  l'uomo esiste? vive soltanto sulla terra o anche in altri mondi? chi lo ha creato? la sua vita può avere avuto, come racconta la storia dell'evoluzione umana sui primi ominidi, origine dai primati? quanto conta la conoscenza scientifica intorno al Pliocene su scimmie antropomorfe bipedi, sino ai Neanderthal e infine a Homo Sapiens? e Dio? il nostro Dio esiste o è soltanto nella mente umana, per un conforto e una speranza che leniscono l'afflizione e i rischi che si accompagnano all'esistenza e al suo stesso mistero? Ecco, la letteratura non è soltanto un vettore di questi assilli, né è il luogo per eccellenza e da sempre si alimenta a interrogativi assillanti, facendosi complice e latrice della grande domanda sull'esistenza di Dio. Come non ricordare la grande letteratura francese (Mauriac, Bernanos, Char, Bonnefoy)? o il filone dantesco della poesia anglo-americana (Eliot, Merton, William Carlos Williams)? Ma non vorrei dimenticare Jean Guitton, prima allievo e poi assistente di Henri Bergson. Le sue pagine (ma anche le sue tele) ci fanno meditare su Dio e la Scienza, su L'infinito in fondo al cuore e su Il secolo che verrà. Più vicino a Teilhard de Chardin di quanto non fosse a Jacques Maritain, si mantiene sempre rispettoso delle ragioni dell'essere e dell'Ente. E soprattutto delle aspettative dell'uomo di fronte al mistero di Dio.

 

Giovanni Occhipinti

 

:: fine prima parte ::

La letteratura del novecento (parte seconda) - 2

La Letteratura del Novecento (Giovanni Occhipinti) - 3

 

Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

Paul Valéry

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