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  • Autore: Carlo Ruta et alii
  • Editore: Edizioni di storia e studi sociali

«Roma e Cartagine: due città del mondo antico che si contendono l'egemonia del Mediterraneo. Nella prima fase trattano, si accordano sui commerci, cercano di stabilire modi di convivenza con vantaggi reciproci. Poi si dipana una lunga vicenda di conflitti che alla fine vede Roma vincitrice e la città punica umiliata nel 146 a.C. fino alla distruzione...»

Così inizia, in quarta di copertina, la sinossi del libro Roma e Cartagine - due civiltà a confronto (Edizioni di Storia e studi sociali) che vede come autori Maurizio Massimo Bianco, Pino Blasone, Alfredo Casamento, Massimo Cultraro, Rossana De Simone, Massimo Frasca, Francesca Oliveri, Carlo Ruta, Francesco Tiboni e Sebastiano Tusa. Il libro è stato presentato a Ragusa, presso il Museo archeologico ibleo, martedì 30 aprile.

Dopo l'introduzione di Enzo Piazzese (presidente di Archeoclub d'Italia sezione di Ragusa), il prof. Giovanni Distefano (direttore del Polo Regionale di Ragusa per i siti culturali e docente presso l'Università della Calabria e Roma 2 Tor Vergata) ha condotto la conferenza, presentando i saggi contenuti nel libro e dando poi la parola a tre degli autori presenti: il saggista e storico Carlo Ruta, il prof. Massimo Frasca, docente di archeologia classica all'Università di Catania e il prof. Massimo Cultraro, primo ricercatore CNR e docente di preistoria egea e paletnologia presso l'Università di Palermo.

I relatori hanno sottolineato come, al di là, di facili luoghi comuni che riducono tutto ad uno scontro militare tra le due civiltà mediterranee, c'è molto altro, con una Cartagine "modello" per i romani che ne riconoscono la supremazia nei commerci e nella navigazione e presto sentono l'esigenza di imitare il modello ma anche di liberarsi dalla sudditanza allo stesso modello, rendendosi liberi e pronti a dominare il Mediterraneo. Cartagine dopo le guerre puniche è apparentemente distrutta ma invero rinasce, soprattutto con l'imperatore Ottaviano Augusto, dalle stesse sue ceneri, per divenire avamposto romano nella "Libia", come allora veniva definito il nord'Africa. Ma non solo, la città punica, rinasce anche idealmente, con le sue tradizioni fenicie, attraverso il mito virgiliano di Didone e il culto della dea madre Tanit faccia di Baal, quella dea che nell'immaginario romano prende nome e sembianze di Dea Coelestis.

Il libro si apre con il saggio di Francesca Oliveri dall'emblematico titolo Il ritorno di Cartagine tra archeologia e storia. E non potremmo, a questo riguardo, non menzionare i nuovi scavi che proprio in questi tempi stanno iniziando a Cartagine proprio grazie all'impulso di Giovanni Distefano, già autore negli anni passati di un volume sulla città punica che fa riflettere sulla necessità di riprendere il discorso sui rapporti tra Roma e Cartagine. L'autrice parte da quello che si può definire come il "vessillo" di Catone: quel Carthago delenda est che in genere viene visto come emblema dello scontro militare, ma che nasconde molto altro, poi, tra le altre cose, nota, con Arnold Toynbee, che a proposito della fine di Cartagine la vera posta in gioco era se il futuro dello Stato universale avrebbe assunto la forma di un impero cartaginese o di un impero romano, delle due l'una, impossibile oramai conciliare le due cose.

Massimo Cultraro ha illustrato il suo saggio, che segue nel libro quello della Oliveri: Cartagine prima dei Fenici: avventurieri ed esploratori lungo le coste nordafricane alla fine del II millennio a.C. L'autore parte ovviamente con la descrizione di coloro che i micenei della tarda età del bronzo definivano appunto Phoinikes, che seguendo Omero erano un variegato gruppo levantino abile nella navigazione e abili nell'artigianato. Gruppo che si stabilì nella Libye lasciando Tiro al tempo del regno di Ittobaal nel IX secolo, al tempo in cui secondo le fonti fu fondata la misteriosa (per noi) città di Auza, forse fondazione protofenicia nel Golfo di Tunisi o, secondo altri, in Algeria. Tra l'altro, Cultraro descrive un vaso dimenticato dall'antico porto di Cartagine. Si tratta di un'anfora a staffa con peculiari fogge vascolari che, come confermano studi recenti, riporta a Cipro, al Levante ed è forma del repertorio miceneo. Questo episodio fa presumere ad ampie relazioni tra i micenei – e in genere i greci – e i punici-fenici, come testimoniato anche da altro reperto rinvenuto a Cartagine di cui ha parlato Distefano. Anche se non vi sono altre informazioni, Cultraro mette in luce che l'anfora era certamente parte del corredo di una tomba. L'autore descrive poi le frequentazioni dei cartaginesi nella costa africana, in Sicilia e Sardegna ma anche oltre lo Stretto di Gibilterra, in una prospettiva atlantica. Argomento davvero interessante su cui riflettere e studiare.

Carlo Ruta intitola il suo saggio Cartagine e la nascita dell'Occidente. L'autore mette in luce quello che chiama ‘rapporto edipico’ tra Roma e Cartagine, come quello di un figlio verso il padre, o ancora dell'allievo verso il maestro, l'allievo che apprende e copia il modello ma ad un certo punto si sente quasi obbligato a compiere un ideale ‘parricidio’, prendendo il posto del maestro, sostituendosi a lui. Roma, nel VI secolo a.C. comunità di terra e fluviale era interessata al mare e alla navigazione e ben presto si accorge che deve confrontarsi non solo con i greci delle poleis, di Siracusa e Massalia, ma anche con la grande potenza commerciale di Cartagine. A Roma ben presto era nata quella che noi moderni chiamiamo "opinione pubblica" e questa opinione pubblica spingeva in quella direzione, facendo pressione per passare dal confronto allo scontro. Rileggendo Erodoto, si capisce come i modelli del nascente Occidente fossero quello greco, quello romano e quello cartaginese. Secondo l'autore l'Occidente in quel frangente cominciò a caratterizzarsi sul piano economico e politico  come portatore di un progetto tendenzialmente univoco: intorno al VI secolo emergeva pienamente la potenza navale di Cartagine, la potenza commerciale dei Fenici, e Roma non poteva sottrarsi al confronto. Ma era anche un continuo travaso di culture, con i romani che imparavano molto dagli emporia punici e i Cartaginesi che apprendevano gli usi e costumi romani. Roma costruiva strade regie per collegare Persepoli, Susa e le altre città dell'impero, Cartagine apriva rotte, consolidava porti intrecciando il suo destino con Estruschi e Romani e contribuendo non poco a quella che l'autore chiama «l'autoriflessione dell'Occidente».

Sebastiano Tusa ha proposto un saggio dal titolo I sistemi di trasporto terresti in epoca romana, descrivendo, tra l'altro alcuni veicoli, come il ferculum e la sella gestatoria, ma anche il pilentum, veicolo a quattro ruote con larghi cerchioni variamente dipinti.

Massimo Frasca ha scritto Leontini tra Cartagine e Roma, narrando come nel conflitto tra le due potenze, che nella seconda metà del III secolo a.C. ebbe come teatro proprio la Sicilia – tra le prime due guerre puniche – Leontinoi potè godere di una lungimirante politica del siracusano Ierone II, essendo la città parte integrante del dominio di Siracusa. Narra poi di un fatto accaduto nel 215 a.C., quando Ieronimo, nipote e successore di Ierone, si schierò con i Cartaginesi e arrivò a Leontini con 15mila uomini per preparare guerra a Roma, atto che non gli fu perdonato. Segue il racconto di Polibio e di Tito Livio che narra di un agguato al giovane siracusano. L'autore descrive poi gli usi di Leontinoi, ad es. le sepoluture, restando in tema con l'omicidio. Gli abitanti seppellivano i morti in due grandi necropoli, una a nord, con tombe coperte da lastroni di pietra, l'altra a sud della porta meridionale, con tombe in più livelli su terreno alluvionale, proprio quella parte che ha restituito molte tombe risalenti all'epoca del conflitto romano-cartaginese.

Francesco Tiboni ha contribuito con il saggio Roma e Cartagine. Due potenze navali sul Mare Nostrum. L'autore parte da una considerazione di Lionel Casson: «i Romani furono un'anomalia nella storia marittima, razza di marinai d'acqua dolce che divennero dominatori di mari a dispetto della propria indole». Partendo da questo assunto, Tiboni analizza l'evoluzione del Mediterraneo fino al primo millennio a.C., analizzando i tipi di imbarcazione, come le imbarcazioni cucite dei mercanti e marinai greci delle poleis ad oriente, mentre ad occidente si notavano le grandi navi a mortasa e tenone dei Fenici che avevano fama di «inventori della navigazione astrale», come ricorda Plinio il Vecchio. Era per Roma assai difficile confrontarsi con questa tecnologia per quelli che Casson definisce «marinai di acqua dolce» e fino al IV secolo a.C. i marinai cartaginesi prevalevano sempre. Se non sono tante le informazioni sull'origine di questa supremazia tra VI e III secolo, fa notare l'autore, una comprensione può venire dall'analisi di alcune monete provenienti da Sidone, Arados e Biblo, datate tra V e IV secolo, in cui si vedono raffigurate grandi navi da guerra fenicie e cartaginesi. Imbarcazioni raffigurate davanti alla città turrita, con propulsione a vela e a remi e ponte superiore chiuso e protetto da scudi. I romani certo le studiavano per secoli, sinché giunse il momento di abbandonare la malcelata "indifferenza" nei confronti dei punici e confrontarsi anche militarmente con loro, come avvenne poi nel 264 a.C. Non si poteva certo sperare di confrontarsi militarmente solo a terra, si doveva affrontare il mare. La storia la conosciamo, anche se l'autore la sintetizza magistralmente. Ci sembra interessante la sua conclusione che mette in luce come la capacità di adattarsi a questa nuova dimensione di potenza navale diventa cruciale per le sorti di Roma, nella Repubblica e ancor più nell'Impero. E questo non più e non solo nel Mare nostrum centrale, ma fin dove Roma si espandeva, con Cesare, fino alla Manica, fino all'attraversamento del Fiume Oceano.

Rossana De Simone ci parla dei Cartaginesi a Roma e degli scambi culturali tra i due popoli, as es. analizzando il Poenulus di Plauto, il «piccolo punico» della commedia plautina da cui apprendiamo qualcosa sulla lingua semitica fenicia. Ma si pensi anche a Pompeo Festo che sotto la voce "punicum" ci parla di una specie di focaccia portata a Roma dai Cartaginesi, che veniva chiamata probum perché prelibata; e si pensi ancora a Columella e soprattutto all'Eneide con il mito di Didone, l'innamorata di quell'Enea che parte da Troia per fondare Roma, ma fa tappa – secondo il destino – proprio a Cartagine. Virgilio fa morire la regina tragicamente, perché ella non poteva opporsi al destino della sua città d'essere solo tappa di passaggio obbligato e non di stazione finale.

Alfredo Casamento intitola il suo saggio Lucano, i Mani di Cartagine e i presupposti dell'epos. L'autore mette in luce come veniva vissuto dagli stessi romani lo scontro epico con Cartagine, e parte dalla Pharsalia, di cui Servio, commentatore virgiliano, dice «Lucanus namque ideo  in numero poetarum esse non meriti, quia videtur historiam composuisse, non poema»: non si trattava, a suo avviso, di poema storico ma di opera storica tout court ancorata all'epos per il metro, con Virgilio ultimo rappresentante, in ambito latino, di quello che fu l'epos omerico in Grecia.

Maurizio Massimo Bianco tratta ancora di Un Cartaginese a Roma. A proposito del Poenulus di Plauto. Ci piace sottolineare come l'autore analizzi La lingua del nemico a teatro (è il titolo di un paragrafo), riportando e commentando il passo in cui Annone entra in scena recitando un monologo punico, appunto «nella lingua del nemico».

Infine, Pino Blasone scrive su Il mito di Cartagine, nella storia della cultura. Piace all'autore iniziare con la descrizione del paesaggista del Seicento Claude Lorrain che propose un'opera dall'emblematico titolo: Didone mostra Cartagine ad Enea, olio su tela descritto anche come Addio di Enea a Didone, in Cartagine, che non può non riportare alla mente il tragico destino di un amore ma anche il fatale destino di una città, Roma.

Salvo Micciché

Roma e CartagineRoma e CartagineRoma e Cartagine

 

Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

Paul Valéry

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