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  • Autore: Salvo Micciché, Giuseppe Nativo
  • Editore: Carocci Editore
  • Titolo: La Sicilia dei Micciché

Il direttore di RTM (Radio Tramissioni Modica) ha scritto una bella recensione su La Sicilia dei Micciché, il saggio storico di Salvo Micciché e Giuseppe Nativo (Carocci Editore). La riproponiamo qui a beneficio dei lettori di Ondaiblea

 

Da RTM

Nel quadro della ricerca storiografica che porta nuova luce alla conoscenza del tessuto politico, umano, sociale e culturale della Sicilia, merita certamente attenzione la pubblicazione del volume La Sicilia dei Micciché. Baroni e briganti, intellettuali e popolo, di Salvo Micciché e Giuseppe Nativo, dato alle stampe per i tipi di Carocci editore.
Un testo pensato e costruito dagli autori con una chiara struttura teleologica, quella cioè di far convergere “in unum” e divulgare elementi nonché dati storici in ordine alla presenza di una famiglia siciliana molto influente, quella dei Micciché, nei vari territori dell’isola.


Dunque, un testo storico prezioso che consente al lettore di addentrarsi nei luoghi in cui vissero i Micciché , e di conoscere, così, i rapporti che questi ebbero con vari territori della Sicilia sia sul piano dello sviluppo e dei gesti significativi da loro compiuti, sia sul piano dei punti di debolezza e, in qualche caso, di fatti molto meno apprezzabili.
L’opera fornisce, nella prima parte, certosini frammenti di storia dei Micciché, ove emergono le origini della famiglia attraverso l’analisi di fonti che attestano come il casato arabo di Michiken ebbe origine nel pieno Medioevo nei pressi di Alimena, sulla strada che da Palermo conduce al val di Noto, o più esattamente di Villalba. Gli autori delineano, anzitutto, un po’ di storia di Michiken partendo da Villalba, quindi si spostano su Scicli, ove – scrivono Micciché e Nativo – si trovano “molti elementi storici e indizi lapidei, funerari e monumentali che riguardano la presenza e l’opera della famiglia per il periodo storico tra il Medioevo e il XVII secolo”.
Sulla presenza dei Micciché a Scicli, il volume offre un ampio e dettagliato resoconto storico, che va da Pietro Micciché il quale sposa donna Antonia Speciale, figlia del viceré di Sicilia, a Vincenzo Micciché, fine poeta, intellettuale e letterato appartenente all’Accademia degli Inviluppati, il quale, prima di morire, fa un lascito testamentario al padre “con il vincolo che alla sua morte dovesse usare i fondi per costruire il Collegio della Compagnia di Gesù.”
La ricostruzione storica conferma, dunque, come la presenza del casato Micciché a Scicli fosse molto influente sul piano culturale e religioso, tant’è che la famiglia fondò il collegio dei gesuiti (“La famiglia Micciché – si legge nel saggio – si sentiva idealmente vicina ai padri gesuiti e voleva a tutti costi fondare un collegio dei gesuiti a Scicli”, p.32), e diede anche seguito alle disposizioni testamentarie di Vincenzo Miccichè del 25 agosto 1623:

“… ‘Alla Congregazione dell’Immacolata Concezione di Maria con sede nella chiesa di sant ‘Andrea di Scicli venti onze da destinare alla fattura di un vessillo nel quale fossero dipinte le immagini da un lato dell’Immacolata e dall’altro quella di san Carlo Borromeo’, lascia 100 onze alla chiesa di San Guglielmo (chiesa di San Matteo), lega beni agli Agostiniani, alla Congregazione dell’Immacolata Concezione di Maria con sede nella chiesa di sant’Andrea di Scicli, vari parenti e pensa all’amata moglie Beatrice Paternò: ‘seicento onze’ (…) una scrivania d’ebano e la biancheria che egli possedeva al momento della morte. Erede universale è comunque il padre Giuseppe.” (p.32-33).

Molto interessante risulta, nel volume, il contributo di Paolo Nifosì titolato “L’eredità di don Giuseppe”, dal quale emerge la figura di un uomo di fede che redige il testamento dopo la prematura morte del figlio Vincenzo, e che si professa cristiano raccomandando la sua anima a Dio e alla Vergine Maria, a San Giuseppe, ma anche a San Francesco e al beato Guglielmo, protettore di Scicli.
Sulla base del manoscritto notarile e di ricerche archivistiche, Nifosì mette in risalto tanti aspetti importanti sul piano storico. Anzitutto che “Micciché è abile a intessere relazioni sociali e affari con i nobili e gli intellettuali del tempo”, ed ancora che “In quel periodo storico, Scicli con la sua sergenzia attribuita alla città dai conti di Modica, controllava non solo la costa iblea, ma anche i traffici economici militari tra le isole maltesi e la Contea di Modica; poi le vicende di Giovan Battista Passanisi, barone di San Michele, “molto amato – scrive Nifosì – da don Giuseppe Micciché, che probabilmente vede in lui il riflesso del proprio figlio”; ed ancora, l’aggiunta, da parte dello stesso Giuseppe Micciché, di codicilli in latino al testamento, e “con cui chiede agli eredi universali di ‘detinere et continuatis temporibus manutenere solitas scholas grammaticae et logicae per patres dictae Societatis (…) manutenere schola Philosophie et Sacre Teologiae”, a piena dimostrazione della sua particolare attenzione per gli studi e la cultura. Infine, il contributo di Nifosì mette in risalto altre disposizioni che riguardavano ancora la sorella Antonia Micciché, un legato per Costanza Portuenze e un altro legato per il monastero delle orfanelle per il maritaggio di due orfanelle.
Rimanendo sempre su Scicli, i due autori del volume offrono al lettore una breve cronologia su “Altri Micciché a Scicli” nel quattrocento, avvalendosi di una attenta lettura di documenti d’archivio e del manoscritto del Carioti. Il percorso storico che essi tracciano mette in risalto diversi fatti storici legati ai Micciché:
– una rivolta popolare avvenuta a Scicli nel 1450, che vide nella lista dei ribelli anche Giovanni Micciché e Pietro Micciché, incolpati di tumulto “seu baluctatione populi” e altri reati, in quanto insofferenti, con gli altri maggiorenti iblei del tempo, nei confronti del conte di Modica, Giovanni Bernardo Cabrera, a quel tempo in rotta con la Corona spagnola;
– la presenza in città di diversi Micciché: Nicolò Micciché, procuratore generale della Contea di Modica e amministratore, figlio di don Pietro Micciché e donna Francesca Speciale; e Angelo Micciché, avvocato fiscale, che insieme ad altri, e su proposta del governatore Bernaldo del Nero, sottoscrisse gli Statuti di riforma della Contea di Modica;
– la costruzione della chiesa di San Giuseppe per iniziativa di Gian Antonio Miccicheni, che la edificò “dentro un proprio vignale” nel 1502, come anche confermato dagli atti della Cancelleria di Siracusa del 9 dicembre 1508;
– l’attività di Francesco Micciché, che fu notaio a Scicli dal 1600 al 1626, e che scrisse atti relativi sia all’ istituzione, da parte di Antonino Mirabella, di una confraternita della Consolazione a testimonianza dell’interesse verso le ragazze più povere, sia le “rendite per l’Ospedale di Scicli, in particolare dell’obbligazione di un tumulo ogni settimana in favore dei carcerati del castello” (p.50);
– la procedura di assegnazione delle doti di Pietro Di Lorenzo (Busacca), nella quale compare Blandino Micciché il quale deteneva, insieme ad Antonio Trapanese e Giorgio Pirrello, “il denaro solo per 24 doti di maritaggio”.
Il saggio storico di Salvo Micciché e Giuseppe Nativo prosegue poi allargando l’orizzonte di ricerca e riportando fatti, accadimenti, vicende e testimonianze riguardanti, fra l’altro, il processo di beatificazione di San Guglielmo, la peste del 1626, la presenza dei Micciché a Palermo nel corso del XVIII secolo. In proposito il saggio fornisce notizie, anneddoti e ricostruzioni molto puntuali ove si stagliano fatti riguardanti “notevoli ed estesi fermenti sociali, economici e, non ultimi politici” in Sicilia, con particolare attenzione al 1848 quando – scrivono i due autori – “l’intreccio fra violenza privata e violenza politica appare in tutta la sua drammaticità”.
Come si può notare, lo sguardo di Salvo Micciché e Giuseppe Nativo approfondisce frammenti di storia utili a riempire il vuoto di conoscenza non tanto degli addetti ai lavori ma del vasto pubblico, e focalizzando in modo particolare, tra l’altro: l’azione dei Micciché nell’opera di fondazione de “l’Università di Studj in Palermo” il 12 gennaio 1806, ove emerge la figura del “professor Fede, modicano”; l’avvento del “cholera morbus”, che si espande, per la prima volta, in Europa e in Italia nel XIX secolo e che colpì a morte, nella città di Favara, ben 16 persone della famiglia dei Micciché nel 1866-67; la figura di Giovanni Micciché, soldato-farmacista che ricevette una Menzione d’onore per la provincia di Palermo; la rilevanza dei Micciché nella Contea di Caltanissetta, ove – scrivono i due autori – “Nel quarantennio 1637 – 1677, i Micciché si attestano ad un valore percentuale pari al 19,5% nell’accesso alla funzioni giuratorie” (p.79). La disamina storica, pur se, come dicevamo, a brevi frammenti, si allunga infine su altre città siciliane: Favara, Agrigento e Campobello di Licata, Messina e Pietraperzia, Ravanusa, Piazza Armerina, Santa Croce Camerina, Trecastagni, Villarosa, Avola, Buccheri e Siracusa.
In questi frammenti storiografici, Salvo Micciché e Giuseppe Nativo attingendo a studi storici nei vari comuni interessati e avvalendosi di una sitografia accurata nonché di testi consultati in rete, espongono con chiara e sintetica narrazione il percorso di una famiglia, quella dei Micciché appunto, che – come gli stessi autori scrivono – “non è solo il nome di una famiglia, ma anche di un feudo e di alcuni toponomi; la storia dei luoghi e della gente che vi ha vissuto si intreccia e dà spunto per parlare della Sicilia che transita dal Medioevo alla Modernità” (p.16).
E riguardo a toponomi e feudi, la parte conclusiva del volume disegna proprio una fotografia storica dei feudi siciliani dello sciclitano e oltre, tra i quali ci piace segnalare Para (o Apara), che erano le terre del notaro Vincenzo Aparo, che dopo il 1630 contribuì, con don Giuseppe Micciché e Don Girolamo Ribera, a costruire il collegio dei Gesuiti di Scicli; Vitalva, toponimo nei pressi di Donnalucata, che comprendeva “terri sotto e sopr’acqua con una torre incompleta”; Bufalaffi , un feudo di cui fu barone Vincenzo Miccichè nella seconda metà del XVII secolo, e situato tra Noto e Rosolini; il casale Micciché , un grande complesso abitativo rurale lungo la strada provinciale 16 da Villalba a Mussomeli; Mastra, feudo appartenuto ai Micciché e sito tra Mazzarino e Riesi. E, infine, vie, ville, masserie e palazzi.
Il saggio di Salvo Micciché e Giuseppe Nativo si chiude, infine, con un’attenzione ai “Ritratti di Micciché”, tra i quali il ritratto di Michele Palmieri di Micciché: l’eclettico intellettuale villalbese, amico di Dumas e Stendhal; del barone di Micciché, il bandito monachello e il suo coinvolgimento nella rivolta antispagnola tra il 1674-78; di Don Pietro Micciché; di Antonio Michicheni di Pietraperzia, componente dell’organico dell’Inquisizione siciliana di rito spagnolo nella qualità di “familiare”(ovvero affiliato) nel 1561, fino a giungere ad una presentazione sintetica di alcune famiglie imparentate con i Micciché, come la famiglia Alliata, Ascenzo, Bonafino, Caraffa, Cartia, Cottone, Colnago, Lorefice, Lucchesi, Di Giovanni, Lucifora, Palmieri, Paternò, Romeo, Trigona e tante altre ancora.
Ciò che piace di questo studio, è la sua dimensione divulgativa, che non significa perdita di scientificità, ma capacità degli autori di utilizzare fonti e ricerche, frammenti, documenti e microstorie per far capire ad un vasto pubblico come era amministrata la Sicilia dal periodo feudale al Risorgimento, e il ruolo che i Micciché e le varie famiglie con le quali si sono imparentati hanno avuto nella gestione sociale, culturale, politica e assistenziale del territorio siciliano. C’è nel saggio, infatti, una ricchezza e varietà di dati storici supportati da un’ampia griglia bibliografica, e una polifonica collaborazione di contributi che rende questo lavoro una fonte preziosa, organizzata sicuramente con rigore e passione, per quanti vogliano estendere ed ampliare il discorso storiografico attorno alla Sicilia dei Micciché.
Questa saggio, al di là del suo procedere “per frammenti”, ha senza dubbio il merito di farci conoscere particolari che spesso rimangono in mano solo agli archivisti, e che riordinati in questo volume ci fanno invece conoscere spaccati di una Sicilia ove il modus operandi di baroni e di padroni, che appartenevano al ceto dei galantuomini e si rifugiavano nei castelli, era spesso causa di sperequazioni sociali; ma di comprendere anche le varie forme di relazione tra notabili e popolo, tra famiglie, mondo religioso e parrocchie e, nel contempo, gli sviluppi della cultura grazie all’influenza del Casato dei Micciché , – ( a Scicli, ad esempio, per l’opera di Don Giuseppe Micciché e del figlio Vincenzo durante la Peste del 1626) specie in ordine alla fondazione della Scuola pubblica dei Gesuiti, la prima scuola pubblica in Sicilia; e ancora, i gesti solidali che venivano dalle eredità delle famiglie per le persone più bisognose e le orfani.
Dai vari ritratti dei Micciché che campeggiano tra le pagine di questo volume, ne esce, per concludere, il quadro di una famiglia che ha disegnato, influito, e condizionato il cammino storico della Sicilia dentro il periodo storico preso in esame dagli autori del saggio.
Dunque, un libro utile, da consultare, da leggere, specie da parte di quanti hanno interesse per la storia locale, ma anche dal vasto pubblico, il quale potrà trarne beneficio per soddisfare curiosità storiche e conoscenze che aiutano a prendere coscienza della grande storia della Sicilia.

Domenico Pisana

 

 

Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

Paul Valéry

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