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di Giovanni Occhipinti

 

Debbo confessare di aver letto con commozione i versi di Naufragi (Sicilia Punto L. 2015), la silloge di Giuseppe Schembari, e di averne vissuto l'alta tensione che li attraversa. 

Vi si assiste al ritorno del figlio risucchiato dal vortice di una situazione-limite (quella del naufragio, per usare la metafora del titolo, che sembra preso dalla concezione esistenziale di K. Jaspers), che riesce alla fine ad affermarsi nei suoi progetti affettivi, umani e sociali, rivelandosi un buon nocchiero di se stesso. 

Pur se affidato ai limiti di un modesto spazio recensorio, questo mio incipit introduce una tematica alta: l'uomo, quando scopre la propria coscienza e la mette a nudo, diviene problematico e pluritematico, proprio per la pluralità dei motivi che alimentano e rivelano la sua ricerca che è tanto più appassionata quanto più è dolente e speranzosa di sapere, di conoscere. E' bene dare atto di questo processo catartico che restituisce l'uomo a se stesso, alla propria razionalità ovvero al vigore di una razionalità salvifica e edificante. Non meravigliano, allora, in questo “racconto” o riflessione a posteriori, l'accoramento e l'indignazione, o la mortificata autocensura, ma anche il rimbrotto al destino dell'uomo, così fragile ed esposto all'errore. Ci sembra di poter cogliere anche la fermezza orgogliosa del trionfo sulla caduta per una finalmente giusta affermazione nella vita, come motivo dominante e ispiratore di questi versi i quali paradossalmente illuminano il buio degli Inferi, trasformandola nella luce di una conquista umana ed esistenziale. 

Tutta la silloge si disvolge ed estende come un diagramma del processo di nascita della somatizzazione del disgusto e della nausea per lo sgarro e il rifiuto della norma che regola la vita. Mi torna alla mente l'intonazione di rammarico e di pentimento di una quartina di Apollinaire: “O ma jeunesse abandonnée/ (“O mia giovinezza abbandonata”)/[...] / Voici que s'en vient la saison/ (“ecco viene ormai la stagione”)/ des regrets et de la raison/ (“dei rimpianti e della ragione”): forse quando, come scrive Giuseppe Schembari, “Nel guado degli annegati/sto genuflesso/al fascino malefico/di un'endovena” (Abisso). O quando, come nel componimento Indugiano ancora, “Nel simposio dei disprezzati/l'ombra staglia/gli esili contorni/dei corpi tumefatti// grammo dopo grammo/intagliano sul marmo dell'avambraccio/la genesi dell'annientamento”.

Uno sguardo all'aspetto stilistico che governa la struttura del verso, come dell'intero componimento, evidenzia la capacità del poeta di esternare il ritmo interiore attraverso la parola poetica che si allittera con le precedenti e le susseguenti grazie all'uso di figure stilistiche come la paronomasia, l'anafora, la sinalèfe. L'esito è nel ritmo di versi che incalzano se stessi, scorrendo quasi l'uno sull'altro con un succedersi di immagini forti o struggenti o disperate, lungo un sottofondo penitenziale, che aspirano o bramano il riscatto dalla dipendenza dell'estasi. Ebbene, questi stati d'animo, i sentimenti, le lacerazioni, tra éthos e pàthos, percorrono in estensione e profondità i versi dell'intera raccolta poetica, dando la misura della loro tenuta e compattezza tematica. 

Sentiremo parlare di questo poeta e della sua tempra di autore e di uomo, che può lavorare sull'ambiguità o ambivalenza di una metonimia, di una metafora, al fine di mutare il disagio della sofferenza, la crudezza, nel soffio sonoro e perdurante di una poesia destinata a crescere e a restare.

 

Lo leggano, i giovani, questo libro di Giuseppe Schembari, eccellente cantore del suo stesso dramma, che, come nella mitologia surreale di quel personaggio tedesco, che fu il barone di Münchhausen, ha potuto liberarsi dalle acque infide e limacciose della palude, tirandosi per i capelli.

 

Giovanni Occhipinti

 

Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

Paul Valéry