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  • Rubrica: Vivere gli Iblei

C’è un posto in Sicilia, famoso nel mondo. Famoso per tanti motivi, vediamo di capirne almeno alcuni...

 

Ragusa, 20 luglio 2020 — Il posto si chiama Cava d’Ispica laddove il termine tipicamente siciliano “cava” è da intendersi – in italiano – come “valletta”, al limite – poiché siamo da anni ormai americanizzati - anche “canyon”. E “d’Ispica” perché la città ad essa più vicina è quella Ispica che fino al 1935 era stata Spaccaforno, Provincia di Ragusa – ma prima feudo degli Statella, aristocratici che in alcuni casi furono illuminati, intraprendenti –.

Quella cava è lunga poco più di tredici chilometri e larga da un minimo di venti ad un massimo di cento metri. Da quelle parti è passata la storia. Come altre sue consorelle la Cava d’Ispica è geologicamente parlando uno spacco nel tavolato calcareo dai geologi detto “formazione Ragusa”. Una ferita creata dai movimenti tellurici, dallo scorrere dell’acqua di impetuosi torrenti oggi ridotti a gocciolamenti, dal vento che s’infila e lima la roccia. E poi dall’uomo, che ne ha fatto un luogo dove vivere, migliore di altri.

Nella cava si vive(va) in spazi angusti ma sufficienti per una piccola comunità, un paesello. Le case sono scavate nella roccia, sfruttando l’intera altezza delle due pareti rocciose, in alcuni punti oltre quaranta metri. A fondo valle era presente la più importante delle risorse: l’acqua. Per bere (uomini e armenti), per irrigare gli spazi di terra pianeggiante, in dialetto “a lenza”, che per posizione e storia era ed è – se qualcuno ancora volesse lavorarci – estremamente fertile. La cava e le persone che vi vivevano era facile da difendere: se i greci, i bizantini, gli arabi avessero voluto (come vollero, fortemente vollero) conquistarla, dovevano fare i conti con una natura particolarissima, con gli abitanti bene organizzati, con una comunità autosufficiente e con il mare vicino. Da quel mare fonte di pericoli, ma anche di ricchezza. Portare i prodotti della terra sulla spiaggia per venderli o scambiarli, procurarsi il pesce, accogliere le novità e le merci sconosciute manufatte dall’altra sponda, dall’Ellade lontana. Grazie al mare.

E certamente dal mare era arrivato, dalla natia Palestina, trecento anni dopo la nascita del Cristo, quel Santo Ilarione che molta parte della sua vita trascorse, da eremita, in una delle centinaia di grotte della Cava d’Ispica.

Ed è in quella cava – e nelle altre che sono simili e circostanti – che si trovano accanto il buio e la luce, lo spazio e l’angustia, l’orizzonte e la costrizione. Vivere in una grotta, per quanto ampia e in forma di casa, è pur sempre vivere in condizioni simili a quelle animali. La grotta, è vero, ha temperatura e umidità costanti, sia d’inverno sia d’estate. Ma è una grotta, con lo stillicidio perenne, con la puzza di muffa, con pochi metri quadrati per uomini e animali insieme ai loro sudori, ai loro escrementi. Si vive all’ombra, e a uscirne si vede solo la parete di roccia dirimpettaia. Ma dalla cava è possibile venire fuori – anche, si racconta, grazie a cunicoli segreti scavati nella stessa roccia delle grotte/case – per salire sull’altopiano che tutta la circonda. E allora è l’opposto: orizzonte infinito, sguardo che abbraccia tutto il cielo dell’azzurro siciliano, e poi ancora più lontano verso il mare che quei soldati venuti da Roma chiamarono Mediterraneo.

E vale anche, forse anche di più, per la vegetazione. In fondo alla cava c’è l’acqua: alberi ad alto fusto (platani, salici, pioppi e i preziosi noci), terreni arati, seminati, irrigati a frumento, orzo, avena, cotone, lino, canapa. Sulla “ciana” l’altopiano è piatto, pochissimi alberi e distese di verde d’inverno e giallo d’estate.

Si diceva del fatto che il luogo è famoso. E non tanto per dire: nei secoli, per tutto quanto si è tentato di descrivere in questa pagina, e anche di recente, da quando francesi e inglesi, tedeschi e poi anche gli americani, hanno fatto giorni di viaggio per arrivarci, e disegnarla (Houel, anche lui). Perché è un posto magico, dove, speriamo di averlo fatto comprendere a chi non conosce il luogo, è possibile vivere contemporaneamente la condizione del piccolo, del chiuso, e quella opposta, dell’aria e della “pruvenza”. Agli antichi, se per evidente convenienza o per supposto senso del bello non sapremo mai, la Cava d’Ispica offrì vita e riparo. A noi moderni, a noi indigeni, potrebbe (aimè, il condizionale) garantire ricchezza senza dover fare nulla, se non tenerla pulita. Ma adesso abbiamo le case di cemento e i nostri SUV arrivano a fatica sul greto sassoso.

S’illudono i turisti e i visitatori, quelli che conoscono la storia della Cava (ovvero gente che ha letto, che possiede gli strumenti per comprendere e apprezzare, anche il solo vedere aranci e capperi, e pazienza se il McDonald più vicino e a Ragusa): la Cava è perduta, perché solo chi ci ha vissuto – seppure, gli ultimi, fino a poco più di un secolo fa –, conserva il ricordo della grotta e delle scale, del mulo e dell’ombra. E preferisce la casa, e la macchina in garage.

 

Saro Distefano

 

Credit fotografici: Antonino Giurdanella e Luigi Nifosì

 

 

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