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Chiunque sia il prefatore di un'opera, ne disattendo sempre la pagina per non farmene influenzare; ed è quanto ho fatto anche stavolta con la breve presentazione che introduce il nuovo libro di Occhipinti.

Un altro punto fondamentale: mai attardarsi sulla superficie delle parole: si corre il rischio di non scorgerne la profondità. Ce lo suggerisce questo canto poematico, da cui si librano le note alte dell'idillio - Canto dell'Hybla - (Edizioni del Centro Studi ″Feliciano Rossitto″, Ragusa 2017).

 

L'Isola, l'amore e la religione della Madre Terra, la paganità e la classicità sono una costante, come già ci è stato dato di notare, nella riflessione esistenziale e letteraria di questo autore. Ed eccoci alla suggestione della pastorale iblea, dell'idillio con la campagna per la liturgia dei luoghi dell'anima (ne è prova l'intonazione salmistico sapienziale dei versi), quelli che catturano il tempo passato che non ritorna, ma che pure continua ardentemente a vivere in noi con la suggestione dei ricordi e degli affetti. E', dunque, la memoria antica che accende il canto scandito dai versi lunghi di Giorgio, mentre personaggi del mito e della classicità sfilano ai nostri occhi come chiamati a trasferirsi nella nostra – ahimè amara – contemporaneità. Si vuol dire con ciò che il poeta recupera la dimensione del tempo trascorso, quindi i suoi valori e la sua civiltà, affinché il Passato possa offuscare la realtà di un presente sempre più incerto e problematico, quando non infido, che non risponde più alla realtà interiore dell'uomo e alle sue aspettative. E dunque è la nostalgia (l'algìa del nostos, il dolore del ″ritorno″ impossibile) dei ricordi di un mondo e di una civiltà classici che sostanzia e muove questi versi, ariosi e sofferti, del poeta ragusano, che certo ha memoria della salubrità del paesaggio della campagna - il mondo agreste invocato - e insiste a ricercare nelle situazioni poetiche che la esprimono la dimensione spirituale che contrasta l'attualità di un presente, oggi, non più accettabile. 

L'unica tensione autobiografica, qui, è rappresentata dalla nostalgia di un mondo ″altro″ non alterato dagli inganni della realtà contemporanea; ed è qui che cogliamo il senso religioso e paradossalmente pagano di questa poesia di riti e di aneliti che non possono trovare posto nell'oggi dei conflitti e delle drammatiche transumanze umane (una metafora dell'immigrazione? Mi sia concessa!) e dell'inquinamento, ai quali il poeta-cantore oppone il proprio rifiuto nelle visioni gioiose di un tempo che oggi non ci appartiene se non nella memoria, quando cioè può farsi canto e incanto e sognare nell'eden dello spirito. 

 

Sul piano tecnico-creativo, quando cioè si deve dar voce a questo pensiero per riviverlo come condizione esistenziale assoluta e rassicurante, l'autore ricorre a quel ″materiale″ classico, o della classicità, ricostruendo, trasferendo le proprie visioni poetiche e accendendo la memoria di immagini rurali, proprie della civiltà contadina e di immagini che ritornano, chiamate a rispondere al nostro presente, ad abbellirlo col mistero e il calore del mito che da sempre vorrebbe sostituirsi al mistero della vita, ma inutilmente! Da qui, l'elegia di questo canto. 

E' autobiografica questa poesia, come qualcuno osservava? Certo, è qualcosa di più: il desiderio del ritorno nei luoghi delle Esperidi, all'êthos del mitico giardino (Ibla, per esempio, e perché no?). E poi, la poesia è sempre ″autobiografica″: nel senso che in essa è sempre l'impronta genetica del suo artefice, ne contiene il DNA, ma nel senso dei vissuti e degli aneliti, delle tensioni e della cultura; dei ricordi, sempre belli e desiderabili quando bussano alla porta della memoria lontana per dimenticare talora l'invivibilità del presente. E sì, è a questo punto che la religosità agreste prende il sopravvento nel poeta, così da influenzarne gli stilemi espressivi, tra l'altro già ricercati e assimilati attraverso la lettura di alcuni grandi classici, per ricostruire i modi e le forme di un linguaggio che paradossalmente afferma e nega (respinge!) l'attualità. Tornano, nell'invenzione del discorso poetico di Giorgio Occhipinti, l'intonazione e la cadenza di una versificazione che se da un lato pone questa poesia fuori dai quadri e dai parametri della poesia contemporanea, dall'altro la innalzano e la trasferiscono nei modelli del canto classico, il cui modo e mondo già rinveniamo in grandi figure, appunto della latinità, come Virgilio o Ovidio o Caio Cornelio Gallo. Si pensi, per ritornare a Virgilio, alle Bucoliche e alle Georgiche.

Giorgio ha voluto riscoprire una dimensione esistenziale che appaghi, respingendo gli inganni e le insidie che avvelenano la nostra contemporaneità e restituendoci una terra che ha la sacralità e la dignità della campagna victorhughiana, che il poeta francese, contemplandola al crepuscolo, definisce ″altare″: ″[...] l'altare della Terra″.

 

Trovo fuori contesto, mi si passi l'osservazione, Fantasie campestri, un calco, potremmo definirlo, metrico-ritmico sul motivetto anarcoide di Cecco Angiolieri (″Si' fosse foco arderei lo mondo/[...]/″), il quale però attaccava col suo controcanto il ″Dolce Stil Novo″, forse un po' troppo verboso ed edulcorato dal sogno d'amore e dal ricordo della donna amata. 

Ma soffermiamoci sull'immagine di una terra contadina, pastorale e solenne, che innalza il calice della religiosità e si mostra in tutto lo splendore mistico di un'elevazione a Dio. Ebbene, la civiltà rurale, oggi sconvolta e impoverita dall'avvento della pur necessaria civiltà industriale, nasce proprio dall'altare della terra. 

Aveva un bel dimostrare il ragusano Vann'Antò ai Futuristi, che inneggiavano alla macchina e al rombo del motore, con la sua poesia, Automobile + Asina, che la civiltà della macchina non sempre offre le garanzie di un'asina sulla strada! La vita ha purtroppo i suoi cicli!

 

Giovanni Occhipinti

 

Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

Paul Valéry

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