(fonte Wikipedia)

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  • Rubrica: Folklore

Tutti ricordano e hanno canticchiato questa popolare canzone con una forte matrice siciliana, di quelle canzoni che quando la senti, non si può fare a meno di pensare alla Sicilia rozza e selvaggia, immobile e indomabile nei costumi e radicata nelle sue tradizioni, ferma in principi e valori fuori da ogni tempo, consumata dai pregiudizi e dai tabù che negano ogni primitiva forma di libertà, senza nessuna pretesa e senza alcuna speranza, imprigionata in un arcaismo storico.

Così come succedeva nei primi decenni del secolo scorso e anche oltre, tutte le ragazze da marito ambivano a trovarsi il moroso e le genitrici di figlie femmine, già da subito pensavano ad ultimare il corredo, dote essenziale per un matrimonio che si rispettasse, a meno che i due giovani non decidessero di fare la fuitina, allora era un altro discorso perché a quel punto il corredo rimaneva nella casa materna, e mancu ‘n fazzolettu sceva. Tutto rimaneva rintra a cascia, chiusa e chiusizza.

 Tornando a Rosa della popolare canzone e interpretata da grandi artisti del folklore siciliano, fu futtunata assai. U maritu u trovò subito, un buon partito. Era più grande di lei di qualche anno, e aveva braccia forti e robuste per lavorare nei campi. Tutti i matini si suseva alle quattro,  agghiurnava e scurava e mai nu lamentu.  Travagghiaturi forti era e ci resi a Rosa cinque figli tutti masculi, tutti boni e biniritti. Sarebbero diventati robusti comu u patri, tutti braccianti. Scuola nun ni manciavano, non serviva pi ghittare sangue nei campi. Così Rosa fu assoggettata e inglobata in un sistema servile e servizievole verso quella famiglia di soli uomini. Ma era felice, del resto era quello che la società contadina umile e semplice richiedeva, l’unico modo di essere donna e madre in un mondo governato da soli uomini, in una società rurale dove non lambiva lontanamente alcun pensiero rivoluzionario.

 

A Saridda ci capitò nu sansali. Di sudare nun surava, era bonu a parrari e con la parlantina ubriacava le persone a comprare pezzi di terra, promettendo ca cu accattava campagne, aveva assicurato u desinari, picchi chi zappava la terra si saziava di pani e senza zappatura nun veneva la verdura.

A Pippinedda invece, a furia di circari u masculiddu, ci vinniru sei fimmineddi. Sei cambiali aveva a campari e tutta sula picchi so maritu, a buon’anima di don Tanuzzu, non aveva compiuto manco trentasei anni ca u Signuri su ritirò e finiu i so jorni ‘nsuppilu ‘nsuppilu. Pippinedda però, fimmina forti era e a mattina faceva a vendemmia e a sira faceva a lavannara, caricandosi di panni lordi per poi renderli bianchi e profumati per le ricche signore del paese. Sodo lavorava e crisciu tra malanovi e triuli i sa figghi, ma sempre ca testa alta e onestamente.

 

E la più bella, quella con lo sguardo altero, quella che quando passava tutti si giravano a guardarla, quella con il vitino da vespa e due cosce lunghe tipo Giovannona, quella dai capelli folti e corvini che raccoglieva in un crocchio, quella che quannu passava si sventolava ca sciusciarola con un fare misto a sensualità e provocazione, per cui tutti la sognavano e la desiavano. Sí, proprio quella, nessuno la volle in moglie. Tutti la guardavano con occhi languidi, tutti fantasticavano sul suo corpo di fimmina, ma nessuno se la prese. Troppo bella era ma piriculusa. I troppi biddizzi causano i desideri re masculi e tutti strammano, picchí le voglie non sanno autoregolarsi e suscitano troppe tentazioni, così nessun masculu, di quei tempi s’intende, voleva portare un peso sulla “testa”, mettiamola così.

 E per la poverina il tempo passava inesorabilmente, l’età cresceva, passata di levitu era, e si fici schietta ranni. E mentre guardava le sue compagne di gioventù tra quella vita che tanto aveva ricercato, lei rimaneva a casa a spiareda una sfilaziedda e sospirava e sospirava e macari chianceva lacrime d’invidia per quell’esistenza inaridita e privata dai piaceri della carne. Accussí cunta e canta a canzuni!

«Si maritau Rosa, Saridda e Pippinedda e iu ca sugna bedda…  non mi potti maritá!»…

 

Gabriella Fortuna

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Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

Paul Valéry

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