Cultura
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di Giuseppe Nativo

 

Auguri Maestro! Una serata trascorsa quasi in famiglia, con tanti estimatori ed amici riuniti per dare un segnale forte ed emozionante con la loro presenza. Così ha sottolineato Andrea Guastella al termine della serata promossa dall’Associazione culturale Aurea Phoenix, il Masd, l’Agimus e l’Anmil ed avente come obiettivo principe quello di festeggiare le settantacinque primavere del maestro Franco Cilia. Luogo dell’incontro il teatro “Il Palco” di Ragusa dove sono stati proiettati alcuni frammenti di video che hanno caratterizzato l’iter artistico dell’artista. 

Molteplici gli interventi che si sono articolati nel corso della serata per delineare la figura del maestro. La sua ricerca fin dagli anni ‘60 ha affrontato la tematica della frantumazione dell’Io e del rapporto dell’uomo con il suo doppio, cercando ciò che si muove dietro il visibile nel tratto immaginativo di Turner. Successivamente, negli anni ‘70, i suoi interessi si sono polarizzati sulla ricerca intorno alle pitture nere di Goya e ai suoi rapporti con i labirinti della psiche, esplorando sul piano linguistico le possibilità di simbiosi tra informale e figurativo. Non c'è mostra di Franco Cilia che non rappresenti un passo in avanti, lungo un itinerario profondamente segnato da una propensione assoluta per la ricerca. Pittore e scultore, interprete eminente del rovello artistico del Novecento. Su tali aspetti si sono soffermati Carmelo Arezzo ed Emanuele Schembari che hanno visto muovere il personaggio Cilia sin dai suoi primi vagiti pittorici. Giorgio Giovanni Guastella si è soffermato sull’universo espressivo dell’artista che ruota attraverso una complessa dialettica interna tra la figura e il paesaggio sottolineando come Cilia sia capace di dipingere l’inferno in quadri intensissimi e terribili che presentano, nel contempo, una “terribile bellezza” come se vi fosse già stato.

“L’arte – come scriveva Paul Klee - non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è”. L’Arte non è solo pittura, ma è anche scultura e scrittura. E di questi tre aspetti Franco, nel corso degli anni, ci ha dato contezza attraverso le sue pregevoli opere. Relativamente alla scultura vengono in mente le “pietre antropomorfe”.

Un esempio: la Sfinge, che è il “frutto” di una terra martoriata da secolari lotte “saracene”. E’ il misterioso “respiro” di questo lembo sud-orientale di Sicilia ad infondere quel movimento tellurico di vetusta memoria che “sprigiona aspetti inquietanti” e che viene percepito dall’orecchio “artistico” di Cilia. Sta in questo l’aspetto più interessante dell’artista che riesce a “parlare” con le sue “creature” fornendo loro le giuste “folgorazioni cromatiche” e “nel saper togliere dalla pietra il superfluo con sapienti e mirati colpi di scalpello e subbia”. Sulla base di tali istanze la “Sfinge” iblea, collocata nella rotatoria di Villa Pax, è la singolare attestazione di come l’arte può diventare anche “arredo urbano”.

Relativamente all’anima letteraria di Cilia ne hanno delineato i variegati aspetti Totò Stella (che si è soffermato sulla vasta bibliografia posta in essere da Cilia da oltre un trentennio) e Silvio Biazzo con le riflessioni critiche sulle due ultime opere dedicate a Ginevra (adorata nipotina di Cilia) in cui il pensiero narrativo si trasforma in pensiero visivo e dove quella straordinaria forza chiamata Amore va oltre la dimensione terrena. 

Commoventi gli interventi di Nino Capozzo (Presidente regionale dell’Associazione nazionale mutilati e invalidi sul lavoro), Giovanni Cultrera (musicista) e del vescovo Paolo Urso che hanno posto l’accento sulla dimensione umana dell’artista. 

Una serata, dunque, in cui le plurime anime di Cilia si sono intrecciate, quasi abbracciandosi, attraverso le note musicali magistralmente sottolineate dal maestro Peppe Arezzo ed impreziosite dalla voce di Lorenzo Licitra. Il rapporto tra musica e narrazione ha un comune denominatore che è quello di saper creare luoghi e spazi immaginari e virtuali. Sia la musica che la scrittura sono articolati nel tempo, anzi, condividono il fatto di creare un tempo psicologico che unisce l’esecutore-compositore e l’ascoltatore. La vera emozione all’ascolto della musica sta nella condivisione di quella che si può chiamare “temporalità psicologica”, nella corrispondenza del tempo interiore con quello costruito dalla musica. Ma anche chi ascolta un racconto condivide in realtà la costruzione del tempo che fa il narratore. Non a caso, la musica è stata definita l’arte delle “scritture del tempo”. 

E la serata trascorsa insieme al maestro Franco Cilia, la sua voce e quella della bravissima attrice Chiara Bentivegna, sembra “raccontare” o “parlare” proponendo con forza una tematica che è stata da sempre presente, forse non solo nella musica ma in tutte le arti, dove più che cercare ciò che l’artista “dice” è meglio chiedersi quale sua esperienza umana ci voglia far condividere. E’ proprio in questo che Franco Cilia fa riflettere sottoponendo al lettore quel “tenero battito dell’infinito” dove “l’amore vince sempre sul nero della morte”. 

 

Giuseppe Nativo

 

Abbiamo intervistato Franco Cilia per Ondaiblea...

La storia di un pittore è già tutta scritta all’origine, nel suo primo “alfabeto” di materia, di colori, di luce. Quale ricordo hai dell’infanzia, delle tue radici, del colore di quegli anni?

L’infanzia? Bella domanda! Tutto parte da lì, da quel dopoguerra vissuto tra i vicoli acciottolati di Ibla, dove improvvisamente le divise americane si erano sostituite a quelle dei Tedeschi, che erano scappati come conigli nel ’43, inseguiti dalle maledizioni di chi con la guerra nazifascista aveva perso tutto: le spose i mariti nel gelo della Russia, le madri i figli e le stesse case del mio antico paese le ringhiere dei balconi, date alla Patria per produrre strumenti di morte. Crescevo così, tra paura e miseria, correndo a piedi nudi, cercando nelle lunghe notti, illuminate dal lume a petrolio, di decifrare le macchie sui muri anneriti dal fumo.

Il mare era lontano, ma l’orizzonte dove si frantumava il sole prima che la notte coprisse il tutto con il suo mistero, mi si offriva per regalare colori alla mia curiosità di ragazzo.

Il colore di quegli anni era quello che mi nutriva dentro le Chiese-Moschee degli Iblei. Mi affascinava il Santo Guerriero di nome Giorgio e il suo leggendario vivere in groppa al bianco destriero, sempre in lotta con il drago e il fuoco della sue fauci.

Sì, quel San Giorgio martire, con il supplizio delle torture che ne devastavano le carni, le ossa, quel San Giorgio salvatore di fanciulle, legate con catene in anfratti da inferi.

Crescevo con le paure di ogni bambino che nasce in miseria, con i calzoni rattoppati e il rimpianto di una istruzione scolastica negata, perché il figlio del contadino, in quegli anni oscuri, non poteva e non doveva avere la stessa formazione culturale del figlio del Barone, che pretendeva “Voscenza benerica” come saluto e basta.

Tutto questo, forse, può giustificare l’oscuro velluto nero di molti miei quadri degli anni ‘60-‘70 e il grido antropomorfo delle pietre, radice di un dolore antico della nostra terra.

 

Che cosa è la pittura, come la vedi oggi e quali prospettive per i giovani artisti?

Per essere esauriente dovrei chiedere una pagina suppletiva, perché per non essere banali bisognerebbe partire dal vuoto dei nostri giorni, dal disorientamento dei giovani, che risucchiati dal mito dell’apparire, sono spinti a rinnegare totalmente la fatica della ricerca e dello studio. E’ con amarezza che assistiamo ad un appiattimento imposto dall’alto. Del resto i pochi artisti premiati dal mercato, per dirla con le parole del mio amico filosofo Stella, incipriano il loro lavoro, vogliono solo fare soldi, ripetendo all’infinito il prodotto che vende, dimenticando che il non mettersi in discussione li porta a produrre solo l’ombra della loro iniziale ricerca. I giovani artisti imitano questo percorso ultimo dell’artista arrivato, vogliono subito tutto, notorietà e denaro, senza la necessaria ricerca, lo studio e il tormento che l’arte impone. Si contentano di essere protagonisti di una stagione che guarda più al vuoto di un Grande Fratello televisivo che inoltrarsi nei sentieri irti di che cosa significhi il mito della caverna di un Platone o il dotto pensiero di un Federico Zeri.

 

G.N.

 

 

Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

Paul Valéry

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