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Nel dolore, la radice della grande poesia

 

recensione di Giovanni Occhipinti

 

Il De Sanctis ebbe una grande intuizione definendo il dolore ″un colombo che dischiude nuovi orizzonti all'uomo″. Ebbene, questi nuovi orizzonti li ritroviamo in Azzurro elementare (Bur, Rizzoli, 2013, la raccolta antologica – 1992-2010 – già pubblicata da Crocetti tra il 2006 e il 2010) di Pierluigi Cappello di Gemona del Friuli, 1967, paralizzato per una caduta dalla moto che gli causò la recisione del midollo spinale e il trauma per la morte dell'amico che portava con sé. 

Poeta che non vive la condizione parassitaria dell'epigono, egli è anzi ben protetto dai ″furterelli″ degli epigoni, che si aggirano in punta di piedi tra le pagine dei versi dei grandi poeti, e dalle incursioni, in internet, dei ladruncoli delle altrui pagine. Pierluigi Cappello è inimitabile ed è certamente il poeta più interessante tra quelli della sua generazione, del Secondo Novecento e di questo inizio di millennio (gli accosterei, per esperienza di vita e di poesia Letizia Dimartino).

Azzurro elementare è un cielo semplice, senza complicazioni, che non nasconde misteri e segreti, azzurro come il mare rappresentato sugli atlanti e con un indice chiaro (riprendo da una sua nota), terso che ci avverte: ″questa è la terra, il blu che vedi è mare″. 

Ecco, Azzurro elementare potrebbe essere il desiderio di un Dio rivelato e rivelatore, non nascosto nelle profondità del mistero o irraggiungibile da mente umana. Sia tutto chiaro ed elementare, inequivocabile. Non sia un assillo, per l'uomo, il Dio del Cielo. 

Colpisce subito la parola poetica di Pierluigi Cappello, che vela ma per disvelare il dramma di una vita che non spera in alcuna remissione. C'è anzi, qua e là, un'apparenza ludica nell'atteggiamento di distacco tracciato sulla carta attraverso parole che sembrano inseguirsi riprodursi consuonare, parlando spesso d'altro e mai direttamente del dramma, dell'autobiografia che sembra giocare a rimpiattino con l'io del poeta per esprimere, rivelare qualcosa che parrebbe non appartenergli, lì oggettivamente nelle cose intorno, forse per farsi misura di una esperienza di dolore mai direttamente dichiarato. Le parole, infatti, parlano, nel loro metalinguaggio, di se stesse, epperò raccontano con tono, solo qualche volta sommesso, il dramma di una diversità che il poeta non vuole pesi molto sul lettore. Quasi un ″racconto″ in parentesi, con parole che si allitterano e consuonano, scivolando l'una sull'altra come qui, in Nuvole, che il poeta (e l'uomo ferito) sembra ascoltare da altre voci: ″Non sono solo nuvole le nuvole/che nuvola più nuvola più nuvola/fanno disfanno nel cielo figure /di maghi di draghi o serpi o sirene/ ma sillaba più sillaba con cura/staccano voci/musiche serene/queste che tra parentesi ho posate/sulla prora di nuvole d'estate″. Una vera e propria dichiarazione di poetica: parole all'apparenza lievi, scritte perché volino lontano, nello scenario mutevole di un cielo estivo che può però celare la turbolenza di un temporale: un'immagine metaforica di forte effetto, se, come penso, può nascondere il dramma della vita di un uomo, ma anche la tenacia di una speranza incrollabile, che continua a guardare la vita con rinnovata forza: quelle sillabe in parentesi, come avverte l'autore, ″[...] posate/sulla prora di nuvole d'estate″.

Questa poesia di Cappello, nella sua ambiguità metaforica, non è soltanto il resoconto di una dolorosa vicenda personale che si conclude nello sguardo alla vita attraverso presenze creaturali del suo giardino, dove tutto nasce e rinasce, rinnovandosi secondo le leggi dell'equilibrio naturale, ma di più: una contemplazione del fervore della vita e quindi la celebrazione del movimento del divenire in contrasto con una condizione fisica condannata all'immobilità. Da questa immobilità egli celebra la natura in cui tutto si rinnova e torna a vivere, ma nel flusso di pensieri che tacciono per dire. E' insomma un silenzio che significa, un silenzio eloquente e disvelatore. Una sorte di reticenza, insomma, che nel paradosso si fa eloquenza e rivelazione, rinnovando la stessa profondità nascosta del pensiero e illuminandolo di una luce di forza  e di speranza: ″Esco in giardino, stanco a mezzasera;/lì c'era il verde del verde lì c'era/il cielo del cielo lì c'era il vero/del vero perduto di me nel perdermi/[...]″ (In giardino). 

 

Tutta la produzione poetica di questo autore sembra la prova che egli ricerchi la perduta allegria nella natura che dà vita e si regge sulla vita, così che essa diviene termine di paragone e luogo cui attingere la forza che genera, come qui in La pioggia e il vento, altro concerto della natura che sprigiona vita, sia pure con toccanti riflessioni: ″Là fuori la molitura del vento,/la pioggia il vento il pettine che spettina/i campi spopolati delle stoppie/e io rimasto spopolato dentro/cassato da finestre a lastre doppie/questo è inverno, com'è crudele inverno/toglietegli la vu mettete l'effe/[...]″; ecco, un inverno/inferno; ma il poeta insiste, si rivela, abbandonandosi sul frammento del famoso verso leopardiano: [...] quanto somiglia/al tuo [...]/questo fitto rincorrermi/questo scalpitare dei minuti nel nulla/sull'arpeggiare d'ansia/della mosca capovolta//[...]″. La similitudine leopardiana, ce lo svela uomo di dolore. Non il ″passero solitario″, ma la ″mosca capovolta″ gli suscita compassione:″[...] il filo c'è non c'è/resta segnato appena/nel cartiglio di questo tramonto/sotto l'ossido dell'ultima parola caduta/con le mie dita sul tavolo/a farla volare davvero/la mosca″. Una considerazione che si palesa, a dispetto di sottintesi e allusioni che il poeta affida al paragone con la mosca. Le sue frequenti analogie ce lo mostrano ora come ″dita″ frementi, ansiosi, che si agitano (sono le dita di un uomo attanagliato dalla paralisi); ora come ″[...] gli spiccioli che ho in tasca″, nei quali egli si trasferisce, immedesimandosi e immaginandoli ansiosi come ″chi attende″: ″stretto dall'ansia [...]/faccio delle mie dita tempesta/agitando gli spiccioli che ho in tasca// [...]″.

Forse la chiave di lettura del senso di questi versi di Cappello, è da ricercare nei versi aforistici di Wislawa Szymborska, che in questo libro aprono la sezione Dentro Gerico. Ascoltiamoli: ″Morire quanto è necessario, senza eccedere./Ricrescere quanto occorre da ciò che si è salvato″. Parole che sembrano racchiudere il destino e l'esperienza di vita e di dolore del poeta friulano, certamente illuminanti ai fini della comprensione dei suoi testi. Che sono attraversati da un pensiero profondo che penetra le cose e va per il mondo e ritorna per arricchirci col dono di un'esperienza unica, che nessuno però vorrebbe fare.

 

Un'analisi del testo poetico mette in rilievo l'uso di figure linguistiche e di pensiero che concorrono, come per esempio la connotazione, a costruire una molteplicità di sensi che creano una rete allusiva di emozioni, richiami, memorie, associazioni, che coinvolgono i contenuti psichici. 

Rientrano in quest'area linguistica o campo semantico: l'iterazione, la dissonanza come distonia o disfonia (indicano una sofferenza o travaglio soggettivo); l'anafora, l'assonanza (ripetizione di più sillabe omofone di più parole dello stesso verso); la sinalèfe, l'allitterazione (ripetizione di suoni uguali o simili all'inizio di una stessa frase), l'anadiplosi (il raddoppio di una parola all'interno di un verso). Ma se vogliamo proprio tentare l'affondo, allora dovremmo leggere l'opera e interpretarla attraverso gli strumenti della psicocritica, indagando le figure di costruzione come l'epanalessi, l'epanodiplosi che incontriamo spesso in Dante e le figure di pensiero già citate, insomma esplorando il campo semantico, che è fatto di richiami associativi, come già abbiamo fatto notare, e associazioni foniche. Un'attenzione particolare va allo strato semiologico con i suoi parallelismi sintattico-lessicali sempre legati all'iterazione, onde favorire il tono lirico-meditativo e ritmico-emozionale. 

Poesia aforistica e sapienziale, è costruita sulla scienza dello sguardo interiore, sulla riflessione-meditazione che respinge l'autocommiserazione e lo sfogo, ma sa che ″Piangere non è un sussulto di scapole″; e che la nostra esistenza è collocabile ″fra l'ultima parola detta/e la prima nuova da dire″: in questo spazio che collega due parole può manifestarsi il mistero della vita e della morte.

Il poeta va ancora oltre: ricorrendo al sillogismo, intona l'invocazione della grazia: ″Se essermi è un carcere/è in questo carcere che sono libero/se qui sono libero/non fuggirmi adesso che ti avvicini/ma liberami, piuttosto,/perché io non ti vedo″.

L'autobiografia del poeta si scopre nel calvario di una vita drammatica, come un brutto sogno o un coma o un teatro delle ombre, dai tempi verbali qualche volta confusi e sconvolti, come quando non sai, come in questo verso, se ciò che è accaduto ″Sarà stato domani o l'altro ieri″.

 

Giovanni Occhipinti

 

 

Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

Paul Valéry

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