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Carrubo – Pastello su cartoncino cm. 35.2x50 (1991) — Campagna iblea – Acrilico su cartoncino incollato su compensato cm. 50,2x70,1 (1993-94)

 

                                                                                                              “Attraverso l’oscurità

                                                                                il sole del mattino

                                                                                  recò un messaggio:

                                                                                             con un abbraccio luminoso

                                                                                                      risvegliò la bellezza del mondo”.

                                                            Tagore

 

 

Michele Digrandi, l’oscura bellezza della Sicilia (Prima parte[1])

            

Quando si parla della Sicilia è d’obbligo non essere sentimentali, non provare per tutto ciò che riguarda quest’isola, tragica e magnifica, più emozione di quanto ne richieda la sua realtà e la sua cronaca. Tanto più che i suoi scrittori, da Sciascia a Bufalino, l’hanno del tutto avvolta in veli impenetrabili di decadenza e di morte, in quel “sogno barocco” delle sue chiese e della sua architettura urbana che altro non è che la forma di un’enfatica solitudine. Né la cronaca contemporanea aiuta a dissipare minimamente queste nuvole di morte che la solcano in lungo e in largo: la realtà della mafia è tragedia quotidiana che spezza il volto della Sicilia, quella bellezza cantata da Goethe o da Maupassant, nei frantumi del caos o negli intrecci del sangue che sono il filo del suo destino. Anche il cinema, di ieri e di oggi, non sa rinunciare agli stereotipi vincenti di un’isola che, tra farsa e melodramma, resta immobile nella rete della sua sottocultura o della sua invincibile ignoranza.

Il recente film di Giuseppe Tornatore, L’uomo delle stelle, girato nell’incantato teatro barocco di Ragusa Ibla, ne è, ancora una volta, una prova eloquente: la macchina da presa è come un occhio spietato che non vuole distinguere, nelle vestigia di quella bellezza architettonica, le tracce umane di una lotta ad oltranza contro proprio l’ignoranza e l’immobilità spirituale.

            Soltanto Salvatore Quasimodo ebbe il coraggio di chiamare la Sicilia “l’isola impareggiabile”, ma, come si sa, lui l’aveva abbandonata assai presto e non vi ha fatto più ritorno se non con le illusioni della memoria o della trasfigurazione mitologica. Un esempio, insomma, da abbandonare precipitosamente se, specialmente in fatto di cultura, si vuole contare qualcosa. Certo, come è stato ben documentato (cfr. G. Bufalino - N. Zago, Cento Sicilie, la Nuova Italia, Firenze 1993), non esiste una sola Sicilia ma cento e più Sicilie e dunque c’è posto per tutte le opinioni e le contro-opinioni. C’è, in effetti, una Sicilia pigra e una frenetica, delirante; c’è una Sicilia mite (“babba”, in dialetto) che rasenta la più ottusa stupidità e c’è una Sicilia furba (“sperta”) tutta dedita alle pratiche della violenza e della frode. La caccia all’identità della Sicilia non finirebbe mai. E quella del suo paesaggio?  Vi è la Sicilia del carrubo, quella bianca delle saline, quella gialla dello zolfo, quella bionda del miele, quella purpurea della lava o quella “mitica” dei grandi scenari archeologici di Siracusa, Agrigento, Selinunte. Ma la geografia, lo sappiamo dalla storia, è senza speranza. È lecito, dunque, parlare ancora di bellezza della Sicilia o del suo paesaggio?

            Osservando la pittura di Michele Digrandi si direbbe di sì poiché egli sembra condividere, con molti altri artisti, la convinzione che le “idee sono sempre sbagliate”, il che ci fa capire perché gli artisti hanno avuto sempre un posto tanto scomodo nell’accademia, il luogo delle idee o, per meglio dire, delle opinioni. La filosofia, la sociologia o la psicologia sono nemiche degli artisti dal momento che soltanto la bellezza è il vero fine dell’arte, la bellezza della forma, sinonimo della coerenza e della struttura sottese alla vita. Non per nulla Aristotele iniziava con l’intreccio l’elenco delle componenti della tragedia, genere che, almeno nella sua forma classica, afferma l’ordine della vita. Ecco, allora, le tele di Michele Digrandi raccontarci la Sicilia del carrubo o dei colori del suo mare o di quelle distese campagne intorno agli Iblei. 

Una Sicilia avvolta in un orizzonte di cieli incontaminati e percorsi dal vento invisibile della memoria o della nostalgia. Con il suo segno grafico sicuro, la pennellata breve e raccolta, la semplicità cromatica che allude alla visione della luce, Michele Digrandi opera un ininterrotto confronto con quel territorio di Ragusa che implica sempre una sentita partecipazione spirituale e intellettuale. È un ribadire sempre quell’amore nei confronti del mondo, e in particolare della Sicilia, intorno a cui ruotano e invariabilmente ritornano i suoi quadri e i suoi disegni…

Carmelo Mezzasalma, su La provincia di Ragusa - Anno XII n. 3, giugno 1997 (redatto in Firenze, ottobre 1995)  

 

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[1] La seconda parte sarà pubblicata la prossima settimana su Ondaiblea, Rivista del Sudest

 

 

Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

Paul Valéry

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